In certi momenti storici sembra impossibile affrontare i discorsi relativi alla quotidianità, sommersi come siamo da eventi eccezionali come le azioni di terrorismo, gli eventi bellici e le violenze di ogni tipo, in parti del mondo a noi molto vicine o proprio da noi, nelle nostre città.

Eppure anche la quotidianità, a seconda di come viene affrontata, può servire a far decantare vecchie e nuove aggressività e a prospettare azioni più costruttive. Molte situazioni, prese di posizione o scelte politiche, però, si determinano spesso quasi nell’indifferenza collettiva, forse per una informazione incompleta o forse perché, pressati da bisogni materiali sempre più impellenti, non ne percepiamo a fondo le conseguenze. O forse i beni collettivi di cittadinanza sono divenuti entità così impalpabili da passare in secondo piano.

Negli scorsi mesi estivi, a volte particolarmente infuocati, sono stati affrontati tantissimi discorsi che riguardano i minori. Minori “nostrani”, apparentemente sempre più coinvolti in episodi di devianza per bande, minori stranieri, soprattutto quelli che arrivano sulle nostre coste in maniera clandestina, minori spesso “non accompagnati” che richiederebbero tutele particolari per non essere lasciati in mano alla criminalità che in qualche modo li “accoglie”, ma per inserirli nei propri quadri e secondo i propri interessi. Minori sopravvissuti a naufragi, minori profughi da guerre, minori vittime di disagi psichici sempre più diffusi e spesso poco documentati.

A fianco di questi temi di realtà sono riapparsi i temi delle grandi scelte pedagogiche ed educative, si è tornati a discutere se per “raddrizzare” le devianze occorra intimorire con la minaccia di interventi sanzionatori più severi, con misure di restrizione della libertà personale e limitazione di contatti col mondo, persino con la proposta di sequestro del cellulare … Cellulare che rappresenta ormai per giovani e adulti una specie di protesi aggiuntiva di ogni mano, presente come è in ogni dove. Anche per gli anziani, che vi cercano i messaggi rassicuranti dei famigliari o le indicazioni più urgenti per affrontare la giornata, compresi gli orari o i biglietti del tram.

È emersa, in genere, la teoria dell’efficacia del ritorno alle punizioni, che un certo buonismo poco responsabile e poco attento negli ultimi anni avrebbe preteso di sostituire con interventi alternativi, ma con esiti deleteri sotto gli occhi di tutti. Insomma, la riproposta quasi del “Sorvegliare e punire”, il titolo -bersaglio delle nuove pedagogie dagli anni 70 in poi. A volte un ritorno, proclamato con il beneplacito delle nuove scienze, come le neuroscienze, interessate ai mediatori chimici riscontrabili a livello cerebrale nelle devianze, che richiederebbero interventi di contenimento repressivo per attivare risposte neurochimiche di segno opposto (anche qui con dibattiti interpretativi tra gli esperti). Una strategia punitiva utile non solo sul piano educativo e che secondo quest’ottica sarebbe da riesaminare e proporre anche per governare il vivere civile.

Inevitabile conseguenza: l’irrigidimento delle scelte legislative, che tuttavia non possono andare contro i principi del diritto e delle tutele internazionali, come a volte sostiene qualche giudice, disattendendone l’applicazione per violazione di diritti sanciti a livello internazionale.

Cosa c’entra con tutto questo il buon Salvatore Malavoglia, sostituto procuratore minorile e protagonista o coprotagonista dei miei tre romanzi?

Malavoglia è ancora un’altra cosa. Lui deve innanzi tutto sentirsi a posto con se stesso, per aver abbracciato una professione che lo mette sempre in contatto con qualcuno che è vittima o con qualcuno che, pur essendo vittima, diventa a sua volta carnefice per tentare di dare una svolta alla propria storia. Malavoglia non può fare a meno di sentirsi parte attiva rispetto a una giustizia concreta, ovviamente differente a seconda delle situazioni di partenza di ciascuno e dei singoli bisogni. Non pensa prioritariamente a come mandare avanti il fascicolo ma, guardando soprattutto alle persone che ci sono dentro, cerca a suo modo (talvolta con errori, da cui non è certo esente) di attivare sinergie per creare una rete di sostegno sociale che restituisca quel tanto di dignità necessario per poter compiere delle scelte convinte e significative.

E con questa strategia mette anche a repentaglio la tranquillità degli affetti che a fatica si è ritagliato. Malavoglia è così, sempre alla ricerca dei cani perduti senza collare. Pensa che ciascuno di noi, magistrato o non, non può restare indifferente: soprattutto quando una presa di coscienza collettiva consentirebbe di riparare almeno moralmente a torti inferti anche da scelte del passato, condivise dai più.

Non penso proprio che Malavoglia si sentirebbe di continuare a incarnare un certo ruolo istituzionale in una società che sembra tornare indietro di più di trent’anni, ignorando o sconfessando le conquiste pedagogiche che sembravano condivise e in base alle quali sono state compiute esperienze positive: non solo di recupero delle devianze ma anche di sensibilizzazione alla necessità di un maggior coinvolgimento di cittadinanza. Oppure quando attività e procedure, forse ultimamente poco citate, ma da tempo esistenti, vengono ora proposte come scoperte nuove, come nuove scommesse da sperimentare, rivendicando il coraggio di queste scelte innovative. Ovviamente avvolgendo nel silenzio le fatiche e i risultati di chi da decenni già le sperimentava.

No, in questo senso Malavoglia non è, e non sarebbe, un magistrato per tutte le stagioni.

Certo, senza essere all’interno di un ruolo istituzionale, continuerebbe a cercare i suoi cani perduti senza collare, magari portandoseli a casa, parlandoci, ricevendone in cambio riconoscenza o, chissà, tradimenti. Continuerebbe a vivere nella quotidianità il suo particolare modo di essere un cittadino convinto che la giustizia non passa dai grandi proclami di intenti, ma dall’attenzione condivisa di tanti.

Magari, per avere un po’ di attenzione su questi temi, si metterebbe, chissà, anche a scrivere romanzi …

 

 

Due classi liceali di un istituto torinese hanno partecipato  alla “gara” di lettura Leggiamo  Fronte Sud.  Il libro è stato proposto  ed è stato  scelto direttamente dagli  studenti delle classi partecipanti: ciascuna classe doveva  produrre una recensione  (anche in forma di video) e il loro lavoro sarebbe stato giudicato da una giuria mista, composta da due professori e tre studenti, ovviamente non appartenenti alle classi sub iudice.

Una bella iniziativa, che è stata seguita con attenzione, disponibilità e anche grande lavoro da parte degli insegnanti coinvolti nel progetto. Ci sono stati momenti di dibattito nelle classi  già nel periodo di lettura del libro, attraverso i quali  sono subito emerse evidenti le differenze di  approccio dei partecipanti, sia per motivi di età,  sia  a seconda delle interpretazioni emergenti nel singolo gruppo di lettura.

Soprattutto è stata per me autore una bella occasione di incontro  con gli studenti: ho trovato  grande attenzione, curiosità e, ovviamente, il  comprensibile desiderio di valorizzare il proprio lavoro, la propria produzione video  (forma scelta da tutti per la recensione).

Ma non si è parlato solo di Fronte Sud.  Con l’avvicinarsi del 25 aprile  si è parlato  nelle classi di testimonianza (anche attraverso la scrittura), di possibilità di fare scelte “giuste” in ogni momento della Storia, di necessità di una Memoria non solo libresca ma messa alla prova “sul campo”, cioè nella quotidianità delle scelte di ciascuno, della possibilità, concreta, di costruire insieme un Paese migliore.

Successivamente  gli studenti sono stati coinvolti anche in un bell’incontro avvenuto al Polo del ‘900 di Torino, organizzato da Istoreto, a cui hanno partecipato la direttrice  prof. Barbara Berruti e il prof.Enrico Manera, ricercatore di Istoreto, che da tempo si  occupa di storia coloniale italiana.

I temi di Fronte Sud emersi nel video  evidentemente sono quelli che  hanno colpito maggiormente i ragazzi, ma non  sono quelli che  avevano più a lungo trattato con gli insegnanti: segno senza dubbio della loro  autonomia intellettuale , ma anche segnale per noi adulti di come non ci si debba stancare di parlare degli argomenti che ci stanno a cuore perché possano diventare rilevanti anche per i giovani.

Un esempio: i caratteri della  colonizzazione italiana non hanno rivestito ai loro occhi l’importanza di un collegamento “forte” con le vicende del presente, così come l’aspetto della “riparazione” è stato colto, ma in secondo piano rispetto a quello della “vendetta”, in grado di accendere maggiormente la loro fantasia.

Comunque  al Polo del ‘900  la discussione è stata ampia e molti altri aspetti hanno assunto rilievo, coinvolgendo il pubblico in un  incontro sicuramente stimolante per tutti.

 

Qui di seguito si può ascoltare e vedere la recensione proposta attraverso i volti  sorridenti di alcuni ragazzi della classe “vincitrice”, che ringrazio per la spontaneità del resoconto e per la passione  con cui hanno affrontato la produzione del video.

http://https://www.youtube.com/watch?v=ShP-jFboK80&t=6s&pp=ygUKZnJvbnRlIHN1ZA%3D%3D

Anche al Salone del libro di Torino si è parlato di “Mare Fuori” con gli sceneggiatori e i registi ( oltre che con uno degli attori) nell’ambito dei vari incontri dedicati al carcere.

Il titolo era impegnativo: Il mondo reale e quello raccontato  dalla serie “Mare Fuori”.

Infatti partecipava all’incontro anche la dott. Simona Vernaglione, direttrice del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, che ha portato la testimonianza delle difficoltà e dei vissuti di un carcere minorile “vero” , sottolineandone gli aspetti problematici e le necessità educative  da mettere in campo.

Un discorso in effetti molto simile a quello che negli anni ’80 portò a Torino il progetto pilota “Ferante Aporti”, lavoro di squadra che vide molteplici sinergie,  a cui in seguito molti si ispirarono, e che vedeva la Città compartecipe  delle attività educative realizzate dentro e fuori dal carcere.

Ma torniamo a “Mare Fuori”: riporto qui il link del mio articolo su Questioni Giustizia in cui recensivo la serie e riflettevo anche su alcuni aspetti educativi.

https://www.questionegiustizia.it/articolo/mare-fuori

Nella recensione già si dice tutto:  mi sembrava  indispensabile, al di là degli incontri (con bagno di folla gratificante per artisti e autori), dare spazio a qualche considerazione maggiormente legata  al mondo reale del disagio  degli adolescenti, del carcere e della giustizia penale minorile.

 

 

     Le ho viste per caso. Mentre il bus riprendeva la sua corsa, nella luce ormai del tramonto, ho abbassato lo sguardo e le ho viste, circondate da fogliame e piantine, proprio accanto alla palina della fermata nel percorso da Rivoli a Torino. Due fotografie di ragazzi, su un’unica lapide come quelle dei cimiteri, un sorriso gioioso e un po’ ingenuo: Boccali Osvaldo e Cigolini Giulio.

   Due dei tanti ventenni che in queste giornate prossime al 25 aprile ricevono il fiore rosso del partigiano delle associazioni Anpi o delle scuole e ci fanno ricordare episodi di coraggio, di speranza, di amicizia.

In questo caso di amicizia, soprattutto. Tornato a casa, mi sono informato sui brandelli di vita di questi ventenni: due ragazzi di una divisione partigiana, non in una missione speciale ma a Cascine Vica per ritirare da un tabaccaio amico un pacchetto di sale per sé e per gli amici della divisione. Mandati, dunque, a prendere il sale, bene prezioso per conservare quel poco di cibo che si poteva trovare e portare con sé.

Quello stesso sale che serviva come compenso per i delatori che segnalavano la presenza di partigiani. Di solito 1 Kg per ogni denunciato, 5 Kg quando la retata fruttava un arresto di massa. Chissà quanto sale ha ricevuto il delatore che ha segnalato la loro presenza, visto che sono stati uccisi da una pattuglia che era lì per loro e che su di loro ha svuotato tutto il caricatore dei fucili. Erano in quattro. Osvaldo si accascia al suolo, Giulio si attarda per soccorrerlo e dar tempo agli altri due di scappare. Ma è una bomba a mano a troncare le loro vite, proprio lì sul corso Francia, nel buio della sera nel novembre del ’44.

Già nel pomeriggio, andando a Rivoli e ancora in territorio di Torino, ero rimasto colpito dai lunghi elenchi di nomi sulle lapidi presenti sui caseggiati di un tempo o riposizionate su quelli di oggi. Lunghi elenchi di nomi di giovani che hanno sperato di costruire un Paese migliore. Un ripasso della geografia partigiana della città.

Ho fatto quella strada, corso Francia, per andare a presentare il mio Fronte Sud. Quegli elenchi di nomi di ragazzi hanno come scortato il mio cammino, all’andata e al ritorno. In un certo senso lo hanno motivato ulteriormente.

Ho avuto modo di parlare di altri giovani che invece, illusoriamente, erano stati arruolati “per far grande l’Italia, conquistare l’impero in Africa”, anche se più che farlo grande sono stati coinvolti in uno dei più terribili massacri della storia delle conquiste coloniali. Qualcuno di loro ha preso coscienza di questa “impresa”, altri ne sono rimasti turbati ma non ne hanno più fatto parola, altri hanno continuato a vagheggiare il posto al sole che avrebbe fatta grande l’Italia, al pari delle altre grandi potenze.

I nomi di quelle lapidi, al contrario, hanno scelto di far sì che noi potessimo davvero dire “mai più” a tentazioni di conquista e al culto della forza. Lezione, purtroppo, non appresa del tutto e che ora sembrerebbe, in alcuni momenti del nostro presente, addirittura sconfessata.

Un motivo per cui ho scritto Fronte Sud, un messaggio di riparazione nei confronti del passato, ma anche un moto di speranza verso un futuro differente, staccandosi da un oggi che spesso dimentica quei nomi e quelle scelte. Scelte difficili, che anche oggi sono da fare. Ne sono consapevoli le persone dai capelli bianchi che durante le mie presentazioni si sentono coinvolte e aggiungono col racconto un pezzo della loro storia.

Questa volta, però, ho visto anche ragazzi consapevoli: in una scuola la voglia di capire e di fare, da parte di studenti che si erano coinvolti nella lettura di Fronte Sud e si erano impegnati anche a commentarlo con gli strumenti a loro congeniali: video, suoni, immagini. Ragazzi capaci di stupirsi e ascoltare le voci di un passato che sembrerebbe non coinvolgerli ma che in qualche modo li ha ancora toccati. L’ho visto nei loro occhi attenti, nelle domande essenziali, nella voglia di capire. La memoria operosa è un lavoro molto faticoso, come ben sanno gli insegnanti che da anni si impegnano in questo tipo di percorsi.

Una memoria che sa come sa di sale il cammino dei giusti di ieri e di oggi.

Lavorando e sperando, fortemente e intensamente, che non compaiano più volti sorridenti di adolescenti sulle lapidi alle fermate degli autobus, tra l’indifferenza, per lo più inevitabile, dei passeggeri in attesa. Mai più, davvero. Glielo dobbiamo, non solo ricordando il 25 aprile.

Una settimana fa a quest’ora ero a Napoli e stavo presentando il mio libro Fronte sud all’Accademia dell’Alto mare, sul molo Molosiglio. Un luogo insolito e  affascinante, nella sala della biblioteca, che contiene una preziosa collezione di libri, tutti riguardanti il mare.

Il mio libro riguarda il mare?     Nel il mio libro il mare non è solo l’immagine coinvolgente e dinamica della copertinaFronteSud

Esso è in certi momenti il vero protagonista,  come figura metaforica  o  come realtà fisica che mette alla prova  giovani e meno giovani, quasi costituendo la griglia di riferimento della narrazione, secondo gli assi tradizionali   dello spazio e del tempo.

L’intera vicenda  scaturisce infatti da situazioni fortemente intrecciate nel tempo della vita e della storia , ma con  i dati di uno spazio che si allarga nei viaggi e nei percorsi dei protagonisti, restringendosi poi nella memoria, nei ricordi, nei desideri di una vita più raccolta intorno agli affetti e alla propria quotidianità .

I viaggi in mare  dei protagonisti di oggi  sono  spesso avventurosi, compiuti per sfidare la sorte, per intraprendere nuove esperienze, per fuggire da  vite difficili e sempre in bilico. Ma c’è anche il viaggio di un protagonista “ di ieri” verso “le terre d’Oltremare”, la terra promessa  di un nuovo “posto al sole” , che si rivelerà foriera di morte, di distruzioni,  di nuove fughe e nuovi ritorni.

C’è il mare temuto, quello cercato e amato, quello che consente di recuperare speranza, quello da solcare ancora una volta per poter restituire dignità alle vittime di ieri e  di oggi.

Il libro si apre con una aggressione notturna , in uno spazio racchiuso e ben circoscritto. Ma subito la narrazione   condurrà i personaggi a  muoversi, a cercarsi o  a fuggirsi in spazi diversi, ampi o ristretti; ci sarà anche un viaggio dentro di sé, attuato attraverso l’Italia, con tappe frequenti presso il mare , che consentiranno di dare sfogo alle emozioni, di ritrovare valori e motivazioni.

Il libro si chiude  ancora con un viaggio, un volo in aereo sul mare, un viaggio per far memoria , ma anche per testimoniare una speranza ritrovata, immediatamente da spendere in nuove relazioni.

Insomma, il mare della vita, a volte della morte, ma soprattutto delle emozioni, dei sentimenti. Un mare interiore di umanità, che  sono stato ben contento di condividere con il mare  che circonda il molo dell’Accademia dell’Alto mare di Napoli.

Finisce l’anno tra lo sfolgorio dei fuochi, crepitanti come non mai in ogni italica contrada, quasi in contemporanea con gli omaggi funebri a un papa che “non se la sentiva più” e a un campione artista del pallone, il cui funerale è stato celebrato soprattutto sul suo campo di calcio.

Intanto sempre nuovi droni guidano in Ucraina le bombe su obiettivi ben focalizzati, richiamando l’attività intensa della contraerea, smuovendo sempre nuove necessità di investimenti in armi e allontanando, proprio nella precisione dei loro obiettivi, concrete speranze di trattative di tregua.

Folle che omaggiano campioni della fede e del pallone, folle che si spostano tra le urla delle sirene o che si rintanano nei rifugi.

Da noi le strade “del giorno dopo”, nel silenzio del primo dell’anno, sono piene di scatole di fuochi artificiali, ormai vuote ma ancora fumanti, mentre i cronisti danno ancora la caccia al primo vagito dopo la mezzanotte. Nuove vite in un vecchio mondo.

Forse siamo anche noi scatole vuote di fuochi artificiali. Lo sfolgorio delle nostre idee, delle nostre motivazioni, talvolta delle nostre iniziative, è breve come la notte di capodanno e ci ritroviamo nella quotidianità dei tempi ordinari a fare i conti con tutto ciò che poteva essere e non è stato.

Le riflessioni di questi giorni sul papa emerito e la definizione di alcuni giornali del “papa conservatore che rivoluzionò la storia della Chiesa” potrebbero aprirci il varco a una constatazione. Non possiamo vivere impegnandoci a mezzo servizio. Le necessità personali e quelle sociali convergono verso questa direzione: non liquidare subito come utopie illusorie tutte le speranze (nostre e di altre parti del mondo) perché non abbiamo nemmeno il coraggio di sognarle.

Un papa ha avuto il coraggio della novità del dimettersi dall’incarico perché, probabilmente, aveva individuato necessità urgenti, aveva sogni alti che richiedevano l’urgenza di forze fresche, di nuovi approcci e di nuove convergenze. Ma non ha rinunciato a ritenere che un cambiamento potesse comunque essere possibile.

In molti, ormai, stanno invece rinunciando a creare almeno la prospettiva culturale di una pace possibile e questo mentre il diritto, prima, e poi le leggi vengono piegate alle necessità di bisogni di consenso dei politici, prima ancora che della politica, in molti campi del vivere sociale.

Intanto, oltre i fatti di cronaca emergenti, le pagine, solitamente un po’ sonnacchiose, dei giornali nei periodi festivi ospitano dibattiti teologici o pseudo teologici sulle metafore delle icone natalizie e sul coinvolgimento emotivo dei credenti delle varie fedi religiose. Dibattiti in realtà non così innovatori, dal momento che vi aleggia, in modo nemmeno così latente, il tema della religio come alienazione o come forma motivazionale più o meno inconscia.

Come cittadino ˗ forse anche, perché no, come cittadino che si è dato alla scrittura ˗ desidererei qualche schiettezza in più nelle analisi, qualche blah blah in meno di intrattenimento, qualche essenzialità più evidentemente ricercata da parte, almeno, degli intellettuali. Non oso scrivere “qualche verità in più” perché sarebbe ritenuta anche questa una utopia indicibile, dati i canoni della comunicazione.

Eppure il mondo, il cosmo, ci richiede novità per contenere il cambiamento climatico, per affrontare le sfide di nuovi approcci politici ed economici per affrontare l’enormità delle disuguaglianze alimentari e di risorse dei vari continenti. Novità, anche, per salvare l’enorme sete di diritti ancora da garantire per tutelare l’umanità intera.

Non, però, “che tutto cambi perché nulla cambi”: le vicende di questi ultimi due anni ci stanno dimostrando la follia di un puro e semplice ritorno alla normalità inteso come “i nostri vantaggi di prima”, che ci costringono a un eterno e ciclico ritorno di allarmi e paure.

Eppure le proteste variegate e coraggiose di tanti giovani, in tante nazioni, contro persecuzioni, guerre e dettami pseudo religiosi ci mostrano che il nuovo è già presente, è possibile.

In effetti il nuovo è possibile se non lo riduciamo a un fuoco artificiale a tempo, un bell’oggetto da ammirare in momenti di ozio.

Soprattutto se non perdiamo il coraggio almeno di delinearlo quotidianamente dentro di noi. E non da soli.

 

 

 

Che non fosse solo un libro di intrattenimento ve l’ho già detto prima dell’estate. Forse non dovrei dirlo io, ma constato che Fronte Sud, con il suo intreccio e continuo rimando tra passato e presente, si sta confermando di grande attualità.

Come prima dell’estate, continua la guerra. Una guerra che sarebbe incomprensibile se non ponendosi in ottiche di spartizioni di influenze e di potere; ottiche che non erano mai state abbandonate ma che avevano saputo mascherarsi dietro trattati, accordi commerciali, incontri al vertice con partecipanti più o meno selezionati. Ora parlano le armi, di ogni tipo e provenienti da ogni dove.

Anche in Fronte Sud si parla di guerra. Una guerra lontana nel tempo, ma non certo nelle sue conseguenze, se pensiamo ai problemi di tutti i Paesi africani nell’affrontare il loro percorso postcoloniale. Sono stato, quindi, particolarmente contento quando il Festival dell’Accoglienza, organizzato dall’Ufficio Pastorale Migranti di Torino in collaborazione con istituzioni e agenzie sociali del territorio, ha inserito un momento di dialogo proprio a partire dal mio romanzo, a più voci e competenze per meglio approfondirne le tematiche.

Del resto, dal punto di vista storico, proprio in questi ultimi tempi si stanno costruendo reti di ricerca e di collegamento tra lo studio documentale della colonizzazione italiana in Africa e il supporto della memorialistica, attraverso gli scritti di varia natura dei protagonisti delle vicende di quegli anni e di quei luoghi.

Però il mio è un romanzo e nemmeno un romanzo storico. Manzoni si era posto a lungo il problema della scelta tra vero e verosimile, concludendo poi, dopo anni di sperimentazioni e riflessioni, con la scelta della poetica “del vero per oggetto, l’utile per scopo, l’interessante per mezzo”. Non voglio certo mettermi sullo stesso piano (!), ma nel mio piccolo ho cercato di costruire una narrazione che interessasse il lettore e nel contempo lo stimolasse a riflettere su grandi questioni sottese.

La questione del “farsi giustizia” che non può essere una strategia del singolo, in base alla reazione del momento o al desiderio di farla pagare a qualcuno (reazione umanissima che tenta potenzialmente chiunque), la realtà dei sensi di colpa che spesso attanagliano i giusti e della esibita indifferenza alla colpa dei responsabili, il dovere morale di spaziare dalla propria piccola storia a un orizzonte più allargato di umanità o, almeno, di possibile umanizzazione. Il tema della riparazione, insomma, ai limiti tra le tematiche e le tecniche della giustizia riparativa e le scelte etiche del risarcimento morale, che dovrebbero maggiormente condizionare non solo le piccole storie dei singoli ma in certa misura anche quelle dei popoli. Un tema che è stato trattato anche a livello filosofico, ottenendo appoggi e consensi ma anche pareri fortemente dissonanti.

Nel nostro momento storico, mondiale ma anche specificamente italiano, credo che un libro che ci consenta di fare i conti col nostro passato personale, ma anche ci ricordi come esso non possa essere del tutto separato da relazioni e vissuti di chi ha fatto scelte prima di noi, possa essere un libro “utile, per dirla con Manzoni. Forse un’utilità che non avrà un cammino proprio facile o spianato, data la tendenza attuale a rimuovere certe vicende e certi comportamenti, soprattutto quelli le cui ripercussioni sull’oggi sono ancora ben evidenti.

Per concludere: un libro (spero) utile che necessariamente avrà come compagni di viaggio soprattutto persone disposte ad approfondire e, perché no, anche disponibili a qualche tentativo di riparazione del danno, realizzabile solo grazie all’impegno, oggi più faticoso che mai, di costruzione di un futuro diverso.

  

 Era proprio ora di presentarlo, è uscito i primi giorni di maggio  e già dalla copertina tende a farsi notare un po’…

 

Se volete leggere la quarta di copertina vi accontento subito

 

 

 

Ha iniziato al Salone del libro di Torino il suo cammino verso i lettori, ospite per una breve presentazione presso il padiglione Puglia.

 

 

 

 

 

 

Ora Fronte Sud inizierà a muoversi con il suo autore tra le solite difficoltà/ opportunità: trovare luoghi adatti per essere presentato, conosciuto e discusso, trovare canali perché il suo potenziale messaggio possa essere ascoltato, anche in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, trovare anche padrini e madrine che abbiano il desiderio di accompagnarlo in questi primi passi.

Qualche breve riflessione.  Il titolo Fronte Sud:  due termini che associati  fanno subito pensare, come naturale e giusto, alla guerra in Ucraina, a Odessa, a Mariupol. Ma, dice un personaggio di questo romanzo, «quello che ci tocca è guardare sempre verso il Sud del mondo e della vita, verso le aree più problematiche della storia e della memoria».

L’autore, che concorda con lui, guarda alla storia, quella dei nostri giorni e dei ragazzi in arrivo sulle nostre coste dall’Africa e quella dell’aggressione coloniale fascista, e si appassiona alle vicende del romanzo sperando che siano coinvolgenti anche per i lettori.

La dedica del libro è «A ciascuno di noi, perché abbia sempre testa e cuore per le lotte giuste, sui fronti giusti. Non è facile neanche per i personaggi di un romanzo, ma non è impossibile. Come vincere, nonostante tutto».

Avrò modo di approfondire nel tempo questi primi flashes , partendo , spero, dai quesiti e dalle occasioni che incontrerò nelle presentazioni e nelle curiosità dei lettori.

Mi piacerebbe che il discorso si allargasse dalla storia alla Storia, per riflettere su problematiche rimosse, ma che tornano a bussare alla porta nella quotidianità   sui nostri stessi territori.

Se poi  vi interessasse anche avere una suggestione per immagini , ecco il link di un video creato per incuriosirvi un po’

https://www.youtube.com/watch?v=FtMlk8Uzt8o

Per ora buona lettura … a presto con nuovi spunti e suggerimenti!

 

 

 

“Decise di andare in chiesa, in quello strano giorno di quella strana festa insanguinata. Quella di cui non parlavano granché bene neanche in ufficio: troppo vicina a Natale, non è roba da grandi regali, il tempo è sempre incerto e non si sa mai come vestirsi… Invece, quando entri in una chiesa in un giorno così, che non si dicono messe ma la gente c’è comunque, avverti subito un senso di vuoto e non solo perché la croce è coperta dal velluto viola. Dovrebbe riempirlo ciascuno di noi, comportandosi meglio o semplicemente sperando”. (da Messa alla prova, capitolo Venerdì Santo, p.314). Queste parole, scritte qualche anno fa pensando a un Venerdì Santo “normale”, mi sembrano attuali nei tre punti essenziali.

-1) Pasqua, preceduta dal martirio e dalla morte, è festa, diciamo così, “impegnativa” di suo. Quest’anno, con quanto avviene “sul terreno” (come dicono i media) e con quelle immagini che spaccano il cuore come colpi di lancia, l’impegno è massimo. -2) Le parole, almeno certe parole, suonano incongrue e talvolta sono proprio insulse. Le riserve di esse sono illimitate come vari arsenali militari, ma proprio per questo ne andrebbe fatto un uso più responsabile, da parte di tutti. -3) Sperare, se non inteso come una sorta di minimo sindacale, non è, invero, affatto semplice. Però è indispensabile, per ripartire nonostante il vuoto (o peggio) attorno e come motore nel cammino.

Ricordo il cardinale Martini dire che il delitto più grande è la perdita della speranza. Certo non deve essere né soppressa né abbandonata come una scatola vuota e inutile; ma deve anche procedere di pari passo con intenzioni ragionevoli, parole responsabili e la determinazione a perseguire instancabilmente tutte le vie perché per “risolvere” un conflitto non se ne faccia scoppiare uno più grande e ancora più distruttivo. Un paradosso che nella storia ha vari precedenti. Chi ha superato i 70 e, come me, ha avuto genitori, zii e nonni coinvolti nelle guerre della prima metà del Novecento ne ha presenti, grazie anche a quei portatori di una memoria diretta, i meccanismi di innesco, propagazione e reiterazione; così come l’agire prevaricatore o autenticamente delirante dei responsabili, ma anche quello convulso dei troppi che li seguivano perché imbevuti dalla propaganda, dal nazionalismo, dal revanscismo, dal bellicismo considerato espressione di personali virtù guerriere e di rigenerazione (!!!) collettiva.

Per concludere: almeno non deleghiamo i dibattiti ai talk-show e le scelte agli uomini soli al comando (ve ne sono, in forme varie, da più parti). Avvertire, in queste situazioni, un senso di vuoto, per carenza di dibattito vero nelle sedi più proprie e che dovrebbero essere più rappresentative, è un brutto segno. Tocca a ciascuno di noi cercare di colmarlo. Con quello che si ha, come le parole di un romanzo non più fresco di stampa e di un post senz’altra pretesa che quella di tenere assieme pensieri ed emozioni quando ormai si approssima questa Pasqua del 2022.