https://www.youtube.com/watch?v=lDCC9s0uS_8&t=14s

 

Controllo. Sì, nella borsa dovrei aver messo tutto: la mia copia del libro e qualche appunto, la bottiglietta d’acqua, la mascherina di riserva ffp2, quella chirurgica e anche le cuffiette monouso per il microfono, di questi tempi mascherato pure lui. Ah, dimenticavo: il gel disinfettante per il viaggio… E dire che, fino a gennaio, quando uscivo di casa per presentare il primo romanzo bastava che ci fossero lui, qualche fotocopia della scheda e magari la bottiglietta d’acqua. Sembrano passati anni luce.

C’è sempre ˗ ovvio ˗ il piacevole senso d’avventura, per fortuna non solo intellettuale perché vai a parlare con persone in carne e ossa, per lo più sconosciute, ma i segni di questi giorni grevi ˗ e di quelli alle spalle, a marzo/aprile ˗ si sono insinuati nel bagaglio ormai da tempo, intrusi sempre più invadenti.

Per fortuna ho trovato, alle prime presentazioni di Un anno strano, tanto interesse che mi viene da chiamarlo grande calore (qualcuno era perfino entusiasta). Calore di chi ospitava la presentazione; dei lettori, potenziali o attuali, che avevano sfidato il clima plumbeo della pandemia e l’onere della previa iscrizione, causa posti distanziati e quindi limitati; di persone che si sono trovate in libreria o sul luogo dell’evento quasi per caso e sono state pronte ad ascoltare e farsi coinvolgere. Tutti, ovviamente ma non naturalmente, disponibili ad esserci o fermarsi pur bardati con mascherine e, in qualche caso, muniti di altri dispositivi di protezione. Penso che tutto ciò esprima anzitutto il bisogno di vita normale; e nel contempo pure la disponibilità, anche in rapporto a qualcosa di non particolarmente rilevante come l’“opera seconda” di un ex magistrato riconvertitosi alla narrativa, ad adeguare alla contingenza gli usuali parametri di una vita normale, visto che questa è sospesa fra la nostalgia del prima e la latente angoscia del poi, per non parlare del peso del presente, della quotidianità.

Credo che i miei venticinque lettori, nel loro uscire da casa, abbiano portato con sé la cosa più importante: la speranza che, nonostante tutto, sia comunque da assecondare la voglia di interessarsi, farsi coinvolgere dai pensieri e dalle emozioni, discutere… Come se il bavaglio della mascherina li spingesse, metaforicamente, a non farsi imbavagliare e a parlare di più: non solo e non tanto nel senso di “alzare la voce” (anche se la mascherina costringe anche a questo, che è già una piccola fatica) ma soprattutto in quello di non tacere. Per testimoniare in concreto il bisogno e il desiderio di non farsi zittire, di non perdere le parole pur in questa situazione di pandemia che toglie il fiato non solo metaforicamente.

Quanto a Un anno strano, ho riscontrato ancora una volta, dopo l’esperienza di Messa alla prova, come un romanzo su certi temi “cambi” a seconda dell’ottica dei presentatori (“addetti ai lavori” o meno), delle loro esperienze anche come lettori, del pubblico, dei giudizi di chi ha già letto il romanzo e delle aspettative di chi ne è incuriosito. E via dicendo, perché, come normale, ciascuno proietta i propri modelli, le proprie esperienze, forse anche qualche pre-giudizio, in positivo o negativo, sull’autore …

Comunque le vicende di Romy, Malavoglia, Francis, ecc…  e i “messaggi” (uso questo termine per sintetizzare) del romanzo non sembrano lasciare indifferente chi si è accostato a tutto ciò. Un libro che non può lasciare indifferenti è, infatti, l’esplicito, cruciale, giudizio di una persona che mi ha scritto nei giorni scorsi e che ho ringraziato di cuore. In effetti l’intreccio dei fatti e dei personaggi del romanzo suscita reazioni vitali e perfino vivaci, come se quei personaggi, usciti dalle pagine, fossero divenuti essi stessi partecipi del dibattito e in qualche modo compagni di viaggio non solo per l’autore (con cui convivono da tempo) ma anche per i lettori. E anche un piccolo surplus di vitalità (potete cogliere l’atmosfera delle presentazioni nel videoclip, il cui link si trova sotto il titolo) è già qualcosa, di questi tempi.

Mi rende contento, in particolare, il fatto che tutti, comunque, abbiano individuato il filo della speranza che percorre le pagine del libro, anche se spesso sotterraneamente. Non è certo una speranza facile, che si smercia e si compra a buon prezzo, e certi fatti e alcuni personaggi parrebbero fatti apposta per soffocarla. Ma essa è il “fiato” del romanzo: resiste, anima, rianima. E nella realtà della vita la speranza dovrebbe spingere ciascuno di noi a impegnarsi sempre di più, avvertendo la responsabilità, come da proverbio africano citato a fine testo, “per gli occhi che abbiamo incontrato”. Lo hanno compreso i lettori, i presentatori e anche i giurati del concorso letterario astigiano intitolato a Vittorio Alfieri, che nella motivazione del (primo) premio hanno scritto fra l’altro “… Tutto il romanzo, tra vari drammi e imprevisti, ha il sapore della ricerca di una nuova speranza per il futuro… e diventa in qualche modo istruttivo per chi, come tanti di noi, non ha a che fare con questa tragica realtà”. Non è proprio il principio speranza su cui alcuni filosofi hanno scritto trattati, ma per me, per il filo del mio raccontare, non è nemmeno un sentimento generico, una scialuppa di salvataggio in cui ci si butta a occhi chiusi. Ѐ una scelta personale, ma che dovrebbe rientrare in un gioco di squadra svolto dalla collettività per affrontare adeguatamente le difficoltà di oggi e di sempre. Anche i personaggi del romanzo che riescono ad arrivare fino in fondo (a quell’oggi più consapevole che è indispensabile premessa di un domani migliore) “la pensano” così, pur se a spingerli sono anzitutto le emozioni.

Nella realtà di questo periodo così difficile ci siamo imbattuti in esempi di uomini e donne di vera speranza, che si sono rimboccati le maniche e non hanno “delegato”. Abbiamo visto quanto costa sperare operando per garantire ascolto, empatia ed efficienza; facendosi, magari, criticare per aver deviato da sentieri più frequentati. Abbiamo, però, incontrato anche maschere di finta disponibilità, che coprivano superficialità, ambizione, mancate assunzioni di responsabilità. Maschere ideologiche e politiche ma anche le maschere delle fake news, quelle degli eventi negazionisti o delle comunicazioni fuorvianti di esperti, pseudo-esperti e sedicenti esperti. Maschere che nulla hanno a che fare con le mascherine con cui difendiamo i nostri respiri e gli sforzi del nostro comunicare.

Ebbene, spero proprio che i personaggi di Un anno strano possano aiutare in questa riflessione. Aiutare ad avere il coraggio di essere autentici, di togliersi la maschera, istituzionale o personale, per essere se stessi: forse uomini e donne fragili, in mascherina, ma non disposti a nascondere dietro qualche maschera il proprio potenziale di umanità volto a cercare di cambiare quanto si può ed è nella sfera delle nostre responsabilità.