Le ho viste per caso. Mentre il bus riprendeva la sua corsa, nella luce ormai del tramonto, ho abbassato lo sguardo e le ho viste, circondate da fogliame e piantine, proprio accanto alla palina della fermata nel percorso da Rivoli a Torino. Due fotografie di ragazzi, su un’unica lapide come quelle dei cimiteri, un sorriso gioioso e un po’ ingenuo: Boccali Osvaldo e Cigolini Giulio.

   Due dei tanti ventenni che in queste giornate prossime al 25 aprile ricevono il fiore rosso del partigiano delle associazioni Anpi o delle scuole e ci fanno ricordare episodi di coraggio, di speranza, di amicizia.

In questo caso di amicizia, soprattutto. Tornato a casa, mi sono informato sui brandelli di vita di questi ventenni: due ragazzi di una divisione partigiana, non in una missione speciale ma a Cascine Vica per ritirare da un tabaccaio amico un pacchetto di sale per sé e per gli amici della divisione. Mandati, dunque, a prendere il sale, bene prezioso per conservare quel poco di cibo che si poteva trovare e portare con sé.

Quello stesso sale che serviva come compenso per i delatori che segnalavano la presenza di partigiani. Di solito 1 Kg per ogni denunciato, 5 Kg quando la retata fruttava un arresto di massa. Chissà quanto sale ha ricevuto il delatore che ha segnalato la loro presenza, visto che sono stati uccisi da una pattuglia che era lì per loro e che su di loro ha svuotato tutto il caricatore dei fucili. Erano in quattro. Osvaldo si accascia al suolo, Giulio si attarda per soccorrerlo e dar tempo agli altri due di scappare. Ma è una bomba a mano a troncare le loro vite, proprio lì sul corso Francia, nel buio della sera nel novembre del ’44.

Già nel pomeriggio, andando a Rivoli e ancora in territorio di Torino, ero rimasto colpito dai lunghi elenchi di nomi sulle lapidi presenti sui caseggiati di un tempo o riposizionate su quelli di oggi. Lunghi elenchi di nomi di giovani che hanno sperato di costruire un Paese migliore. Un ripasso della geografia partigiana della città.

Ho fatto quella strada, corso Francia, per andare a presentare il mio Fronte Sud. Quegli elenchi di nomi di ragazzi hanno come scortato il mio cammino, all’andata e al ritorno. In un certo senso lo hanno motivato ulteriormente.

Ho avuto modo di parlare di altri giovani che invece, illusoriamente, erano stati arruolati “per far grande l’Italia, conquistare l’impero in Africa”, anche se più che farlo grande sono stati coinvolti in uno dei più terribili massacri della storia delle conquiste coloniali. Qualcuno di loro ha preso coscienza di questa “impresa”, altri ne sono rimasti turbati ma non ne hanno più fatto parola, altri hanno continuato a vagheggiare il posto al sole che avrebbe fatta grande l’Italia, al pari delle altre grandi potenze.

I nomi di quelle lapidi, al contrario, hanno scelto di far sì che noi potessimo davvero dire “mai più” a tentazioni di conquista e al culto della forza. Lezione, purtroppo, non appresa del tutto e che ora sembrerebbe, in alcuni momenti del nostro presente, addirittura sconfessata.

Un motivo per cui ho scritto Fronte Sud, un messaggio di riparazione nei confronti del passato, ma anche un moto di speranza verso un futuro differente, staccandosi da un oggi che spesso dimentica quei nomi e quelle scelte. Scelte difficili, che anche oggi sono da fare. Ne sono consapevoli le persone dai capelli bianchi che durante le mie presentazioni si sentono coinvolte e aggiungono col racconto un pezzo della loro storia.

Questa volta, però, ho visto anche ragazzi consapevoli: in una scuola la voglia di capire e di fare, da parte di studenti che si erano coinvolti nella lettura di Fronte Sud e si erano impegnati anche a commentarlo con gli strumenti a loro congeniali: video, suoni, immagini. Ragazzi capaci di stupirsi e ascoltare le voci di un passato che sembrerebbe non coinvolgerli ma che in qualche modo li ha ancora toccati. L’ho visto nei loro occhi attenti, nelle domande essenziali, nella voglia di capire. La memoria operosa è un lavoro molto faticoso, come ben sanno gli insegnanti che da anni si impegnano in questo tipo di percorsi.

Una memoria che sa come sa di sale il cammino dei giusti di ieri e di oggi.

Lavorando e sperando, fortemente e intensamente, che non compaiano più volti sorridenti di adolescenti sulle lapidi alle fermate degli autobus, tra l’indifferenza, per lo più inevitabile, dei passeggeri in attesa. Mai più, davvero. Glielo dobbiamo, non solo ricordando il 25 aprile.

Una settimana fa a quest’ora ero a Napoli e stavo presentando il mio libro Fronte sud all’Accademia dell’Alto mare, sul molo Molosiglio. Un luogo insolito e  affascinante, nella sala della biblioteca, che contiene una preziosa collezione di libri, tutti riguardanti il mare.

Il mio libro riguarda il mare?     Nel il mio libro il mare non è solo l’immagine coinvolgente e dinamica della copertinaFronteSud

Esso è in certi momenti il vero protagonista,  come figura metaforica  o  come realtà fisica che mette alla prova  giovani e meno giovani, quasi costituendo la griglia di riferimento della narrazione, secondo gli assi tradizionali   dello spazio e del tempo.

L’intera vicenda  scaturisce infatti da situazioni fortemente intrecciate nel tempo della vita e della storia , ma con  i dati di uno spazio che si allarga nei viaggi e nei percorsi dei protagonisti, restringendosi poi nella memoria, nei ricordi, nei desideri di una vita più raccolta intorno agli affetti e alla propria quotidianità .

I viaggi in mare  dei protagonisti di oggi  sono  spesso avventurosi, compiuti per sfidare la sorte, per intraprendere nuove esperienze, per fuggire da  vite difficili e sempre in bilico. Ma c’è anche il viaggio di un protagonista “ di ieri” verso “le terre d’Oltremare”, la terra promessa  di un nuovo “posto al sole” , che si rivelerà foriera di morte, di distruzioni,  di nuove fughe e nuovi ritorni.

C’è il mare temuto, quello cercato e amato, quello che consente di recuperare speranza, quello da solcare ancora una volta per poter restituire dignità alle vittime di ieri e  di oggi.

Il libro si apre con una aggressione notturna , in uno spazio racchiuso e ben circoscritto. Ma subito la narrazione   condurrà i personaggi a  muoversi, a cercarsi o  a fuggirsi in spazi diversi, ampi o ristretti; ci sarà anche un viaggio dentro di sé, attuato attraverso l’Italia, con tappe frequenti presso il mare , che consentiranno di dare sfogo alle emozioni, di ritrovare valori e motivazioni.

Il libro si chiude  ancora con un viaggio, un volo in aereo sul mare, un viaggio per far memoria , ma anche per testimoniare una speranza ritrovata, immediatamente da spendere in nuove relazioni.

Insomma, il mare della vita, a volte della morte, ma soprattutto delle emozioni, dei sentimenti. Un mare interiore di umanità, che  sono stato ben contento di condividere con il mare  che circonda il molo dell’Accademia dell’Alto mare di Napoli.

Finisce l’anno tra lo sfolgorio dei fuochi, crepitanti come non mai in ogni italica contrada, quasi in contemporanea con gli omaggi funebri a un papa che “non se la sentiva più” e a un campione artista del pallone, il cui funerale è stato celebrato soprattutto sul suo campo di calcio.

Intanto sempre nuovi droni guidano in Ucraina le bombe su obiettivi ben focalizzati, richiamando l’attività intensa della contraerea, smuovendo sempre nuove necessità di investimenti in armi e allontanando, proprio nella precisione dei loro obiettivi, concrete speranze di trattative di tregua.

Folle che omaggiano campioni della fede e del pallone, folle che si spostano tra le urla delle sirene o che si rintanano nei rifugi.

Da noi le strade “del giorno dopo”, nel silenzio del primo dell’anno, sono piene di scatole di fuochi artificiali, ormai vuote ma ancora fumanti, mentre i cronisti danno ancora la caccia al primo vagito dopo la mezzanotte. Nuove vite in un vecchio mondo.

Forse siamo anche noi scatole vuote di fuochi artificiali. Lo sfolgorio delle nostre idee, delle nostre motivazioni, talvolta delle nostre iniziative, è breve come la notte di capodanno e ci ritroviamo nella quotidianità dei tempi ordinari a fare i conti con tutto ciò che poteva essere e non è stato.

Le riflessioni di questi giorni sul papa emerito e la definizione di alcuni giornali del “papa conservatore che rivoluzionò la storia della Chiesa” potrebbero aprirci il varco a una constatazione. Non possiamo vivere impegnandoci a mezzo servizio. Le necessità personali e quelle sociali convergono verso questa direzione: non liquidare subito come utopie illusorie tutte le speranze (nostre e di altre parti del mondo) perché non abbiamo nemmeno il coraggio di sognarle.

Un papa ha avuto il coraggio della novità del dimettersi dall’incarico perché, probabilmente, aveva individuato necessità urgenti, aveva sogni alti che richiedevano l’urgenza di forze fresche, di nuovi approcci e di nuove convergenze. Ma non ha rinunciato a ritenere che un cambiamento potesse comunque essere possibile.

In molti, ormai, stanno invece rinunciando a creare almeno la prospettiva culturale di una pace possibile e questo mentre il diritto, prima, e poi le leggi vengono piegate alle necessità di bisogni di consenso dei politici, prima ancora che della politica, in molti campi del vivere sociale.

Intanto, oltre i fatti di cronaca emergenti, le pagine, solitamente un po’ sonnacchiose, dei giornali nei periodi festivi ospitano dibattiti teologici o pseudo teologici sulle metafore delle icone natalizie e sul coinvolgimento emotivo dei credenti delle varie fedi religiose. Dibattiti in realtà non così innovatori, dal momento che vi aleggia, in modo nemmeno così latente, il tema della religio come alienazione o come forma motivazionale più o meno inconscia.

Come cittadino ˗ forse anche, perché no, come cittadino che si è dato alla scrittura ˗ desidererei qualche schiettezza in più nelle analisi, qualche blah blah in meno di intrattenimento, qualche essenzialità più evidentemente ricercata da parte, almeno, degli intellettuali. Non oso scrivere “qualche verità in più” perché sarebbe ritenuta anche questa una utopia indicibile, dati i canoni della comunicazione.

Eppure il mondo, il cosmo, ci richiede novità per contenere il cambiamento climatico, per affrontare le sfide di nuovi approcci politici ed economici per affrontare l’enormità delle disuguaglianze alimentari e di risorse dei vari continenti. Novità, anche, per salvare l’enorme sete di diritti ancora da garantire per tutelare l’umanità intera.

Non, però, “che tutto cambi perché nulla cambi”: le vicende di questi ultimi due anni ci stanno dimostrando la follia di un puro e semplice ritorno alla normalità inteso come “i nostri vantaggi di prima”, che ci costringono a un eterno e ciclico ritorno di allarmi e paure.

Eppure le proteste variegate e coraggiose di tanti giovani, in tante nazioni, contro persecuzioni, guerre e dettami pseudo religiosi ci mostrano che il nuovo è già presente, è possibile.

In effetti il nuovo è possibile se non lo riduciamo a un fuoco artificiale a tempo, un bell’oggetto da ammirare in momenti di ozio.

Soprattutto se non perdiamo il coraggio almeno di delinearlo quotidianamente dentro di noi. E non da soli.

 

 

 

Che non fosse solo un libro di intrattenimento ve l’ho già detto prima dell’estate. Forse non dovrei dirlo io, ma constato che Fronte Sud, con il suo intreccio e continuo rimando tra passato e presente, si sta confermando di grande attualità.

Come prima dell’estate, continua la guerra. Una guerra che sarebbe incomprensibile se non ponendosi in ottiche di spartizioni di influenze e di potere; ottiche che non erano mai state abbandonate ma che avevano saputo mascherarsi dietro trattati, accordi commerciali, incontri al vertice con partecipanti più o meno selezionati. Ora parlano le armi, di ogni tipo e provenienti da ogni dove.

Anche in Fronte Sud si parla di guerra. Una guerra lontana nel tempo, ma non certo nelle sue conseguenze, se pensiamo ai problemi di tutti i Paesi africani nell’affrontare il loro percorso postcoloniale. Sono stato, quindi, particolarmente contento quando il Festival dell’Accoglienza, organizzato dall’Ufficio Pastorale Migranti di Torino in collaborazione con istituzioni e agenzie sociali del territorio, ha inserito un momento di dialogo proprio a partire dal mio romanzo, a più voci e competenze per meglio approfondirne le tematiche.

Del resto, dal punto di vista storico, proprio in questi ultimi tempi si stanno costruendo reti di ricerca e di collegamento tra lo studio documentale della colonizzazione italiana in Africa e il supporto della memorialistica, attraverso gli scritti di varia natura dei protagonisti delle vicende di quegli anni e di quei luoghi.

Però il mio è un romanzo e nemmeno un romanzo storico. Manzoni si era posto a lungo il problema della scelta tra vero e verosimile, concludendo poi, dopo anni di sperimentazioni e riflessioni, con la scelta della poetica “del vero per oggetto, l’utile per scopo, l’interessante per mezzo”. Non voglio certo mettermi sullo stesso piano (!), ma nel mio piccolo ho cercato di costruire una narrazione che interessasse il lettore e nel contempo lo stimolasse a riflettere su grandi questioni sottese.

La questione del “farsi giustizia” che non può essere una strategia del singolo, in base alla reazione del momento o al desiderio di farla pagare a qualcuno (reazione umanissima che tenta potenzialmente chiunque), la realtà dei sensi di colpa che spesso attanagliano i giusti e della esibita indifferenza alla colpa dei responsabili, il dovere morale di spaziare dalla propria piccola storia a un orizzonte più allargato di umanità o, almeno, di possibile umanizzazione. Il tema della riparazione, insomma, ai limiti tra le tematiche e le tecniche della giustizia riparativa e le scelte etiche del risarcimento morale, che dovrebbero maggiormente condizionare non solo le piccole storie dei singoli ma in certa misura anche quelle dei popoli. Un tema che è stato trattato anche a livello filosofico, ottenendo appoggi e consensi ma anche pareri fortemente dissonanti.

Nel nostro momento storico, mondiale ma anche specificamente italiano, credo che un libro che ci consenta di fare i conti col nostro passato personale, ma anche ci ricordi come esso non possa essere del tutto separato da relazioni e vissuti di chi ha fatto scelte prima di noi, possa essere un libro “utile, per dirla con Manzoni. Forse un’utilità che non avrà un cammino proprio facile o spianato, data la tendenza attuale a rimuovere certe vicende e certi comportamenti, soprattutto quelli le cui ripercussioni sull’oggi sono ancora ben evidenti.

Per concludere: un libro (spero) utile che necessariamente avrà come compagni di viaggio soprattutto persone disposte ad approfondire e, perché no, anche disponibili a qualche tentativo di riparazione del danno, realizzabile solo grazie all’impegno, oggi più faticoso che mai, di costruzione di un futuro diverso.

  

 Era proprio ora di presentarlo, è uscito i primi giorni di maggio  e già dalla copertina tende a farsi notare un po’…

 

Se volete leggere la quarta di copertina vi accontento subito

 

 

 

Ha iniziato al Salone del libro di Torino il suo cammino verso i lettori, ospite per una breve presentazione presso il padiglione Puglia.

 

 

 

 

 

 

Ora Fronte Sud inizierà a muoversi con il suo autore tra le solite difficoltà/ opportunità: trovare luoghi adatti per essere presentato, conosciuto e discusso, trovare canali perché il suo potenziale messaggio possa essere ascoltato, anche in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, trovare anche padrini e madrine che abbiano il desiderio di accompagnarlo in questi primi passi.

Qualche breve riflessione.  Il titolo Fronte Sud:  due termini che associati  fanno subito pensare, come naturale e giusto, alla guerra in Ucraina, a Odessa, a Mariupol. Ma, dice un personaggio di questo romanzo, «quello che ci tocca è guardare sempre verso il Sud del mondo e della vita, verso le aree più problematiche della storia e della memoria».

L’autore, che concorda con lui, guarda alla storia, quella dei nostri giorni e dei ragazzi in arrivo sulle nostre coste dall’Africa e quella dell’aggressione coloniale fascista, e si appassiona alle vicende del romanzo sperando che siano coinvolgenti anche per i lettori.

La dedica del libro è «A ciascuno di noi, perché abbia sempre testa e cuore per le lotte giuste, sui fronti giusti. Non è facile neanche per i personaggi di un romanzo, ma non è impossibile. Come vincere, nonostante tutto».

Avrò modo di approfondire nel tempo questi primi flashes , partendo , spero, dai quesiti e dalle occasioni che incontrerò nelle presentazioni e nelle curiosità dei lettori.

Mi piacerebbe che il discorso si allargasse dalla storia alla Storia, per riflettere su problematiche rimosse, ma che tornano a bussare alla porta nella quotidianità   sui nostri stessi territori.

Se poi  vi interessasse anche avere una suggestione per immagini , ecco il link di un video creato per incuriosirvi un po’

https://www.youtube.com/watch?v=FtMlk8Uzt8o

Per ora buona lettura … a presto con nuovi spunti e suggerimenti!

 

 

 

“Decise di andare in chiesa, in quello strano giorno di quella strana festa insanguinata. Quella di cui non parlavano granché bene neanche in ufficio: troppo vicina a Natale, non è roba da grandi regali, il tempo è sempre incerto e non si sa mai come vestirsi… Invece, quando entri in una chiesa in un giorno così, che non si dicono messe ma la gente c’è comunque, avverti subito un senso di vuoto e non solo perché la croce è coperta dal velluto viola. Dovrebbe riempirlo ciascuno di noi, comportandosi meglio o semplicemente sperando”. (da Messa alla prova, capitolo Venerdì Santo, p.314). Queste parole, scritte qualche anno fa pensando a un Venerdì Santo “normale”, mi sembrano attuali nei tre punti essenziali.

-1) Pasqua, preceduta dal martirio e dalla morte, è festa, diciamo così, “impegnativa” di suo. Quest’anno, con quanto avviene “sul terreno” (come dicono i media) e con quelle immagini che spaccano il cuore come colpi di lancia, l’impegno è massimo. -2) Le parole, almeno certe parole, suonano incongrue e talvolta sono proprio insulse. Le riserve di esse sono illimitate come vari arsenali militari, ma proprio per questo ne andrebbe fatto un uso più responsabile, da parte di tutti. -3) Sperare, se non inteso come una sorta di minimo sindacale, non è, invero, affatto semplice. Però è indispensabile, per ripartire nonostante il vuoto (o peggio) attorno e come motore nel cammino.

Ricordo il cardinale Martini dire che il delitto più grande è la perdita della speranza. Certo non deve essere né soppressa né abbandonata come una scatola vuota e inutile; ma deve anche procedere di pari passo con intenzioni ragionevoli, parole responsabili e la determinazione a perseguire instancabilmente tutte le vie perché per “risolvere” un conflitto non se ne faccia scoppiare uno più grande e ancora più distruttivo. Un paradosso che nella storia ha vari precedenti. Chi ha superato i 70 e, come me, ha avuto genitori, zii e nonni coinvolti nelle guerre della prima metà del Novecento ne ha presenti, grazie anche a quei portatori di una memoria diretta, i meccanismi di innesco, propagazione e reiterazione; così come l’agire prevaricatore o autenticamente delirante dei responsabili, ma anche quello convulso dei troppi che li seguivano perché imbevuti dalla propaganda, dal nazionalismo, dal revanscismo, dal bellicismo considerato espressione di personali virtù guerriere e di rigenerazione (!!!) collettiva.

Per concludere: almeno non deleghiamo i dibattiti ai talk-show e le scelte agli uomini soli al comando (ve ne sono, in forme varie, da più parti). Avvertire, in queste situazioni, un senso di vuoto, per carenza di dibattito vero nelle sedi più proprie e che dovrebbero essere più rappresentative, è un brutto segno. Tocca a ciascuno di noi cercare di colmarlo. Con quello che si ha, come le parole di un romanzo non più fresco di stampa e di un post senz’altra pretesa che quella di tenere assieme pensieri ed emozioni quando ormai si approssima questa Pasqua del 2022.

Sembra il titolo di un romanzo rétro sulle memorie di un tempo passato, ancora vicino nel ricordo grazie ai racconti dei più anziani. Invece no, ora stiamo viaggiando su treni che sfrecciano velocissimi sui binari, imbavagliati nelle nostre mascherine regolamentari ffp2, che ci consentono di relazionarci (ma non troppo) e di sbocconcellare qualcosa di fretta, quasi di soppiatto, dopo le debite abluzioni con i disinfettanti di rito. Tuttavia le voci dei notiziari on line che spuntano dai cellulari o le immagini che si dispiegano dalle pagine dei giornali cartacei (anche se, ormai, sempre più rari) ripresentano gli orrori di sempre delle guerre.

Immagini di case distrutte, file di profughi in fuga, pianti e disperazione, dichiarazioni roboanti dei potenti e inascoltati appelli per la pace. L’orrore di sempre, corredato dai sospetti sui massacri scoperti e su quelli da scoprire, ma anche la novità della (solita) propaganda di guerra, questa volta diffusa tramite social, delle conferenze, degli incontri al vertice e perfino delle trattative on line, con linee internet evidentemente solidissime nonostante missili, bombe, interferenze dei droni.

Ci sembrava di stare riconquistando i nostri spazi, pur imbavagliati nelle nostre mascherine e sempre sulla difensiva contro gli attacchi di un nemico invisibile, dai nomi classici come le lettere dell’alfabeto greco. Ora, invece, si ripropone l’immagine di un nemico nuovamente molto visibile e concreto, con le sue sfide, le sue bombe, le sue distruzioni, i suoi carri armati pieni di giovani mandati verso il baratro e la disperazione.

Mi sembra per un momento, con l’aria che tira, quasi fuori luogo andare a presentare lontano da casa un romanzo che, a causa della pandemia, è ormai giunto alla seconda candelina senza essere finora riuscito a girare granché.  Di questi tempi la fatica di una presentazione non è legata solo al viaggio, alla trasferta o al sovrapporsi delle date: è proprio questo senso di vuoto e di minaccia incombente che rende pesanti i movimenti e forse incide perfino sull’eloquio.

In questo periodo, poi, forse trovano maggior consenso fra i lettori le pubblicazioni che consentono evasioni, di tipo geografico o psicologico, che suggeriscono scenari lontani, persino distopici, purché siano dichiarati tali, anche se ahimè ormai largamente consonanti con le ore del presente le minacce del futuro.

Ma poi ci ripenso e, in linea con il mio Un anno strano, concludo che per certi aspetti questo contesto storico è, in realtà, uno dei più adatti per parlarne. Proprio oggi sentiamo assonante l’incombere del passato sulla storia di tutti, compresa quella pur “corta” dei più giovani, la necessità di osservare con un “campo lungo” i vari problemi, senza doverli necessariamente inquadrare, per affrontarli, nelle classificazioni standard delle analisi o delle procedure.  Ancora: la necessità inderogabile di un’ottica di squadra, “l’essere tutti sulla stessa barca”, come si diceva fino a pochi mesi fa, quando affrontavamo il discorso contro i contagi e non contro la violenza di chi vuol risolvere le controversie con l’antico strumento dell’annientamento del nemico. Un’ottica di squadra che tuttavia la guerra vicino a casa ha già messo in crisi, ammesso che ci fosse davvero, con le contrapposizioni delle prese di posizione e delle scelte sul da farsi.

Non importa: lo scirocco che mi accoglie a Bari, e che forse mi ha seguito per tutto il viaggio lungo l’Adriatico, sembra proprio quello che in copertina sta scompigliando i capelli di Romy, la mia protagonista, rendendola nel contempo figura familiare ed enigmatica. Sto andando avanti, anche a macinare chilometri, proprio perché la storia di Romy mi sembra sempre significativa e attuale. Ѐ uscita dalla mia mente e dal mio pc, ma Romy è incredibilmente vera con il suo bisogno di attenzione, di protezione, soprattutto di rispetto. Bisogni che accomunano da sempre non solo tutti i ragazzi (anche quelli in fuga di oggi) ma anche tutti i deboli, i fragili e -perché no- tutte le vittime di violenza della storia.

Costruire momenti, seppur rapidi, di riflessione sulle possibilità di ascolto e forse anche di riscatto o almeno di riabilitazione significa pensare ostinatamente in chiave utopica? Significa rimpiangere i tranquilli scenari di “prima”, con le difficoltà ordinarie e gli ordinari disagi del passato? Oggi no, certamente no. Presentare un libro del genere, discutere sull’anno strano che è la vita di tutti noi, ricordarci che “siamo per sempre responsabili degli occhi che abbiamo incontrato” (come recita il proverbio africano della mia dedica) è anche uno sforzo di testimonianza.     Significa far appello, prima di tutto dentro la fatica del nostro quotidiano, alle possibilità di resilienza di tutti e di ciascuno, a quel senso di umanità residuo che ci dovrebbe richiamare alla continua, quotidiana, piccola e insieme enorme responsabilità di offrire risorse, suscitare speranze per spargere qualche seme di pace.

Sabato 26 febbraio “La Stampa” ha dedicato due pagine agli interventi di scrittrici (Valeria Parrella, Viola Ardone) e scrittori (Giorgio Vasta, Maurizio Maggiani) sul tema della guerra in Ucraina. Mi ha colpito il fatto che la maggior parte di loro si sia descritta quasi come impreparata di fronte alle immagini e al trauma emotivo della guerra. Quell’esperienza l’aveva vissuta sulla propria pelle la generazione dei nonni e, indirettamente, quella dei loro figli (“una generazione di mezzo che è ancora viva in parte, sono i nostri genitori”). Chi è venuto dopo (“Noi siamo quelli che sono venuti dopo”) sembra non potersi sottrarre allo sgomento e al turbinio delle emozioni suscitate dal massiccio insieme di immagini e di voci così intense e ravvicinate, provenienti da uno scenario bellico reale e da popolazioni prese in mezzo a un conflitto sul suolo europeo. L’opposta enunciazione del solo Maggiani (“No, non provo nessuna particolare emozione, nessuno sdegno suppletivo…”) è, nel contesto di un intervento che mi sembra, nel merito, il più condivisibile, fin troppo marcata e netta per non apparire provocatoria. In sostanza: a queste emozioni dovremmo essere ormai assuefatti.

Su questi spunti svolgo qualche breve riflessione, da lettore di quella “generazione di mezzo”, nato cinque anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, da genitori a cui, come per tutti in quegli anni, la guerra non aveva risparmiato le sue asprezze.

Le immagini “di guerra”, nel senso di innumerevoli conflitti in ogni parte del mondo non esclusa l’Europa, sono state, nei vari decenni trascorsi da allora, una costante, alimentata non solo dalle memorie di genitori e altri prossimi congiunti ma anche e soprattutto dalla realtà del ricorso alla violenza degli apparati bellici: i carri armati sovietici a Praga nel ’68 (e già a Budapest nel ’56), i conflitti che negli anni ’90 insanguinarono vari Sati della ex Jugoslavia quali la Croazia, la Serbia e la Bosnia (diranno pur qualcosa, ancora, i nomi di Sarajevo, Mostar, Srebrenica), la guerra per il Kossovo e la stessa contesa fra Russia e Ucraina nella sua prima sortita bellica. Quella che, nel 2014, riguardò la Crimea e lo stesso Donbass e che è proseguita in forma strisciante, ma causando circa 14.000 morti, fino all’attuale aggressione russa. Il tutto per non parlare della Cecenia e delle ricorrenti ostilità fra Armenia e Azerbaigian.

Avendo presente tutto ciò, colpisce e stupisce leggere, per il post conflitto mondiale e guerra fredda, di “… velata certezza che noi mai più in Europa avremmo avuto una guerra calda, con colpi di fucile, sirene nella notte, facciate di palazzi crollate, tetti sfondati, notti di bombe, urla di civili, eserciti al fronte” e che “fino a qualche mese fa bombe e bombardamenti sono stati per me qualcosa che esiste soltanto nell’informazione e nella messinscena narrativa”. Preso atto, comunque, di tali affermazioni (in significativo contrasto con quelle di Maggiani, guarda caso meno giovane e prossimo anagraficamente alla “generazione di mezzo”), mi sembra che vadano svolte almeno un paio di considerazioni.

La prima muove dal fatto che la cultura della pace e (art.11 della nostra Costituzione) del “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” non è qualcosa che possa funzionare a corrente alternata, a seconda degli scenari geografici e di mutevoli criteri di opportunità (i “giri di valzer” di cui leggevamo nei manuali scolastici).

Conoscevamo tutti, da molti anni, le caratteristiche della Russia “di Putin”, così come abbiamo conosciuto e conosciamo quelle, non dissimili nella sostanza, di non pochi altri Stati, nei più vari scacchieri del mondo (e anche più vicino a noi). L’unico modo per tentare di prevenire o almeno contrastare tragedie come quella attuale in Ucraina non può che passare per una serie di scelte coerenti sul piano dei rapporti internazionali, compresi ovviamente quelli economici e commerciali. Come cittadino, ciascuno di noi, quali che ne siano età, cultura e posizione sociale, dovrebbe avere sempre ben presente la realtà della guerra: non per la sua immagine disturbante, da rimuovere o dimenticare, ma come male contro il quale non va mai dismessa la mobilitazione. Anzitutto sul piano della vigilanza, della memoria e della circolazione delle idee e della solidarietà. Questione che non può non coinvolgere a fondo anche gli scrittori

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Con il che passo al secondo punto e alla conclusione. Ogni persona, così come ogni generazione, è più sensibile a certi temi, problemi, miti. Ma nei libri e nelle letterature sono rappresentati tutti e per chi legge è come vivere più vite (Eco). Credo, quindi, che la scrittura sia essenziale anche quale veicolo di trasmissione di storie, emozioni e riflessioni sul tema della guerra, purtroppo una costante nella vicenda umana. Sì che nessuno, “al di qua o al di là della pagina” (quindi scrittore o lettore), finisca per farsi trovare, pur nello sconcerto e nel dolore che ci pervadono, quasi disarmato di fronte alla guerra quando essa, maledettamente, alza o rialza la testa. Le armi della cultura e della consapevolezza sono quelle che tutti possiamo e dobbiamo usare a testa alta.

 

 

A inizio gennaio una nostra amica ha sfidato il freddo per andare a Berlino a trovare il figlio, da tempo studente in quella città. Nella sua prima telefonata, la sera stessa dell’arrivo, oltre alla gioia di averlo rivisto, ci ha subito comunicato che sarebbe andata a comprare qualcosa per lucidare l’ottone, perché davanti al portone di casa aveva trovato ben otto “pietre di inciampo”, ricordo tangibile della deportazione di un’intera famiglia. Con l’avvicinarsi del Giorno della Memoria, desiderava che le targhette fossero ben lustre e visibili. Nei giorni successivi ci ha riferito di come questo ricordo, varcando il portone, si trasformasse quasi in un’evocazione fisica di quella famiglia, strappata da quella casa. Una tra le tante ricordate dalle pietre di inciampo a Berlino e in Europa (130 solo a Torino).

  L’idea che nel gelo del gennaio berlinese qualcuno investisse tempo e fatica a lucidare delle pietre di inciampo, proprio per far inciampare meglio l’attenzione dei passanti frettolosi, come monito permanente legato a quegli avvenimenti, mi ha fatto riflettere su come dovremmo essere capaci di attualizzare sempre quella ricorrenza. Il Giorno della Memoria, infatti, ha assunto negli anni una doppia connotazione: per alcuni un ricordo doveroso ma rituale (talvolta anche per le istituzioni), per altri un impegno sempre nuovo per il presente, una testimonianza di responsabilità. Tra questi ultimi, fortunatamente, molti educatori e giovani che organizzano attività di responsabilizzazione partendo da questo giorno.

Tuttavia già il termine responsabilità oggi non ha una connotazione univoca e deve essere spesso illustrato con attività di storytelling per poter essere attrattivo, degno di essere preso in considerazione. Una narrazione che deve anche fare i conti con il dibattito, da tempo aperto dalla storiografia, sulla contrapposizione tra memoria e storia; importante sul piano della metodologia, ma che viene, in realtà, spesso usato anche come digressivo o, ancor peggio, strumentalizzato a favore di una oggettività ancora da raggiungere. In questo caso non si intende l’auspicabile oggettività scientifica, ma piuttosto una rievocazione vicina ai canoni del politically correct.          

Non credo che sia la via giusta. Probabilmente dovremmo, al contrario, essere in grado di costruire nuove pietre di inciampo legate alle mille difficoltà della storia di oggi, capaci di aiutarci a superare rimozioni individuali e collettive, in grado almeno di risvegliare le coscienze a volte sopraffatte, a volte silenti. Per nulla facile, anche se viviamo in tempi in cui si sprecano e si esaltano metafore di tutti i tipi.

Non facile per noi, figuriamoci per i giovani. Sul loro cammino ci sono tanti inciampi veri e propri, non le nuove pietre d’inciampo di cui avremmo bisogno. Inciampo, per esempio, lo spettacolo della politica durante le recenti elezioni del presidente della Repubblica, ampiamente commentate in lungo e in largo dai media, con lo stesso stile e la stessa tempistica con cui si commentano le mosse dei giocatori e delle squadre alle partite di ammissione alle finali dei mondiali. Oppure inciampo anche il salotto televisivo che, per una intera serata, disquisisce sul fatto che il presidente in pectore non può mai essere il personaggio più degno o più meritevole, ma deve essere, invece, solo il più adatto ad essere accettato dalle varie mediazioni politiche.  Realismo politico? Provate a chiedere ai giovani il loro commento in merito …

Fortunatamente per i media e per il morale della nazione la conciliazione tra generazioni si è attuata, però, già qualche giorno dopo, teorizzata in una conferenza stampa in cui il conduttore di Sanremo magnificava l’idea di aver collocato in gara insieme tutti i generi musicali e cantanti di tutte le età, legati dalla “adrenalina della gara”. Unità nella diversità, con il televoto giudice sovrano, con gli artisti più anziani già contenti “per essere stati ammessi”.  Anche questa una metafora di politically correct o addirittura proprio della attuale democrazia?

In effetti, come hanno notato molti esperti, intendersi sul significato delle parole legate alla vita civile e politica è sempre più difficile perché ciò a cui le parole rimandano è molto diversificato nei vari ambiti sociali. Un esempio evidente è l’uso della parola libertà in questi ultimi due anni di pandemia, con interpretazioni a volte opposte. Un uso che contrappone ideologicamente il termine individuo al termine persona, una visione di libertà focalizzata sul singolo e un’altra legata alle relazioni di comunità e di società civile che costituiscono l’identità della persona.

Forse è proprio necessario cercare di ricostruire un lessico comune, almeno per capirsi, se non per accordarsi. Ma per far questo bisogna mettere in campo molte componenti: conoscenza, onestà intellettuale, ma anche tanta intelligenza emotiva. Se è vero che spesso si inseguono effetti emotivi con ogni tipo di comunicazione, è altrettanto vero che non si dedica molta cura a ricavarne conoscenza e comprensione; nemmeno si cerca di passare dall’emozione al sentimento, presupposto necessario delle motivazioni e dei convincimenti morali.

Chi da sempre lavora con i giovani sa che un metodo efficace per motivare deve far leva sulla capacità di suscitare comprensione empatica, arma che aiuta spesso a sottrarsi alla tirannia di troppo ingombranti.  Già l’io, il , altri inciampi non da poco.

Ma non scoraggiamoci: importante è continuare a guardarsi attorno, cogliere dei segni capaci di costituire senso di comunità e voglia di testimonianza. Importante è che ci sia sempre qualcuno disponibile a lucidare le targhette delle pietre di inciampo, per capire e segnalare in questo modo quali, invece, siano i nostri quotidiani inciampi da rimuovere.

Ritengo opportuno mettere su questo sito la lettera pubblicata nei giorni scorsi dal Comitato che si oppone all’iniziativa della Giunta Regionale piemontese denominata “allontanamento zero”; questione su cui scrissi nel febbraio 2020 per “Questione Giustizia”.

Carissim*,

il giorno 10 gennaio 2022 è ripresa la discussione in IV commissione consiliare sul DDLR “Allontanamento zero”, proposto dalla giunta regionale. 

L’opposizione ha presentato oltre 200 proposte di emendamento; con tutta probabilità però il DDLR n. 64 verrà portato in Aula e approvato a breve, anche nelle prossime settimane.

Nella sua forma attuale, anche con le poche modifiche e integrazioni introdotte,  resta identico nella sostanza e fortemente pericoloso per i diritti dei minori, specie per l’ideologia da cui nasce e si sviluppa. 

Continua ad essere un disegno di legge:

–          nato per rispondere ad un problema che non esiste (in Piemonte 60.000 minori sono seguiti a casa loro);

–          con scopi di mera propaganda su un tema poco noto e che attiva però la partecipazione emotiva delle persone;

–          fondato su un’idea della famiglia, in cui prevalgono i legami di sangue sul benessere delle persone e il diritto degli adulti su quello dei minori;

–           pieno di dispositivi inattuabili perché a costo zero (per aiutare davvero le famiglie e i minori sono necessari investimenti nel settore sociale e sanitario e non un trasferimento di fondi da una parte all’altra del bilancio rischiando di lasciare scoperti altri settori!);

–          centrato sulla convinzione che sia sufficiente fornire un contributo economico per risolvere problemi gravi delle famiglie (le dipendenze si risolvono con un contributo? La violenza si elimina con del denaro? Il maltrattamento si cancella con un reddito aggiuntivo?).

Riteniamo dunque importante far sentire nuovamente la nostra voce, nonostante il periodo complesso. Vi proponiamo un’iniziativa comune.

Abbiamo preparato delle “cartoline” (allegate a questa email) che sintetizzano il nostro pensiero rispetto al disegno di legge.  Potete inviarne solo una o tutte, come preferite.

Invitiamo  tutti coloro che condividono questa iniziativa a sostegno della tutela dei diritti dei minori e del loro benessere  di inviarle dai loro indirizzi di posta personali agli indirizzi di posta elettronica del consiglio regionale del  Presidente della Giunta regionale Alberto Cirio (alberto.cirio@cr.piemonte.it) e del Presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia  (stefano.allasia@cr.piemonte.itnei giorni 20 e 21 gennaio p.v. 

Inoltrate  questa lettera  alle vostre mailing list private, alle  vostre associazioni, agli  ordini di appartenenza, perché le diverse posizioni contrarie a tale disegno di legge possano emergere e arrivare in Regione, come era accaduto nel gennaio 2020.

Il Comitato Zero Allontanamento Zero

Antonio Attinà (Presidente Ordine Assistenti Sociali Piemonte)

Anna Maria Colella (esperta di diritto minorile)

Manuela Olia (Docente di Organizzazione dei servizi sociali presso Uniupo, Consigliera comunale del Comune di Chieri)

Assunta Confente (avvocata)

Laura Onofri (Presidente SeNonOraQuando?)

Elena Petrosino e Francesca Delaude (CGIL, Cisl, Uil Torino)

Carla Quaglino (Casa delle donne di Torino)

Paola Ricchiardi (docente di Pedagogia Sperimentale, Università di Torino)

Daniela Simone (Assistente sociale, Consigliera Ordine Assistenti Sociali Piemonte-2014-2022)

Frida Tonizzo (Presidente Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie)

Rita Turino (Garante dell’infanzia e dell’adolescenza-Regione Piemonte dal 2016 al 2019)

 

Lunedì 17 gennaio 2022