A inizio gennaio una nostra amica ha sfidato il freddo per andare a Berlino a trovare il figlio, da tempo studente in quella città. Nella sua prima telefonata, la sera stessa dell’arrivo, oltre alla gioia di averlo rivisto, ci ha subito comunicato che sarebbe andata a comprare qualcosa per lucidare l’ottone, perché davanti al portone di casa aveva trovato ben otto “pietre di inciampo”, ricordo tangibile della deportazione di un’intera famiglia. Con l’avvicinarsi del Giorno della Memoria, desiderava che le targhette fossero ben lustre e visibili. Nei giorni successivi ci ha riferito di come questo ricordo, varcando il portone, si trasformasse quasi in un’evocazione fisica di quella famiglia, strappata da quella casa. Una tra le tante ricordate dalle pietre di inciampo a Berlino e in Europa (130 solo a Torino).
L’idea che nel gelo del gennaio berlinese qualcuno investisse tempo e fatica a lucidare delle pietre di inciampo, proprio per far inciampare meglio l’attenzione dei passanti frettolosi, come monito permanente legato a quegli avvenimenti, mi ha fatto riflettere su come dovremmo essere capaci di attualizzare sempre quella ricorrenza. Il Giorno della Memoria, infatti, ha assunto negli anni una doppia connotazione: per alcuni un ricordo doveroso ma rituale (talvolta anche per le istituzioni), per altri un impegno sempre nuovo per il presente, una testimonianza di responsabilità. Tra questi ultimi, fortunatamente, molti educatori e giovani che organizzano attività di responsabilizzazione partendo da questo giorno.
Tuttavia già il termine responsabilità oggi non ha una connotazione univoca e deve essere spesso illustrato con attività di storytelling per poter essere attrattivo, degno di essere preso in considerazione. Una narrazione che deve anche fare i conti con il dibattito, da tempo aperto dalla storiografia, sulla contrapposizione tra memoria e storia; importante sul piano della metodologia, ma che viene, in realtà, spesso usato anche come digressivo o, ancor peggio, strumentalizzato a favore di una oggettività ancora da raggiungere. In questo caso non si intende l’auspicabile oggettività scientifica, ma piuttosto una rievocazione vicina ai canoni del politically correct.
Non credo che sia la via giusta. Probabilmente dovremmo, al contrario, essere in grado di costruire nuove pietre di inciampo legate alle mille difficoltà della storia di oggi, capaci di aiutarci a superare rimozioni individuali e collettive, in grado almeno di risvegliare le coscienze a volte sopraffatte, a volte silenti. Per nulla facile, anche se viviamo in tempi in cui si sprecano e si esaltano metafore di tutti i tipi.
Non facile per noi, figuriamoci per i giovani. Sul loro cammino ci sono tanti inciampi veri e propri, non le nuove pietre d’inciampo di cui avremmo bisogno. Inciampo, per esempio, lo spettacolo della politica durante le recenti elezioni del presidente della Repubblica, ampiamente commentate in lungo e in largo dai media, con lo stesso stile e la stessa tempistica con cui si commentano le mosse dei giocatori e delle squadre alle partite di ammissione alle finali dei mondiali. Oppure inciampo anche il salotto televisivo che, per una intera serata, disquisisce sul fatto che il presidente in pectore non può mai essere il personaggio più degno o più meritevole, ma deve essere, invece, solo il più adatto ad essere accettato dalle varie mediazioni politiche. Realismo politico? Provate a chiedere ai giovani il loro commento in merito …
Fortunatamente per i media e per il morale della nazione la conciliazione tra generazioni si è attuata, però, già qualche giorno dopo, teorizzata in una conferenza stampa in cui il conduttore di Sanremo magnificava l’idea di aver collocato in gara insieme tutti i generi musicali e cantanti di tutte le età, legati dalla “adrenalina della gara”. Unità nella diversità, con il televoto giudice sovrano, con gli artisti più anziani già contenti “per essere stati ammessi”. Anche questa una metafora di politically correct o addirittura proprio della attuale democrazia?
In effetti, come hanno notato molti esperti, intendersi sul significato delle parole legate alla vita civile e politica è sempre più difficile perché ciò a cui le parole rimandano è molto diversificato nei vari ambiti sociali. Un esempio evidente è l’uso della parola libertà in questi ultimi due anni di pandemia, con interpretazioni a volte opposte. Un uso che contrappone ideologicamente il termine individuo al termine persona, una visione di libertà focalizzata sul singolo e un’altra legata alle relazioni di comunità e di società civile che costituiscono l’identità della persona.
Forse è proprio necessario cercare di ricostruire un lessico comune, almeno per capirsi, se non per accordarsi. Ma per far questo bisogna mettere in campo molte componenti: conoscenza, onestà intellettuale, ma anche tanta intelligenza emotiva. Se è vero che spesso si inseguono effetti emotivi con ogni tipo di comunicazione, è altrettanto vero che non si dedica molta cura a ricavarne conoscenza e comprensione; nemmeno si cerca di passare dall’emozione al sentimento, presupposto necessario delle motivazioni e dei convincimenti morali.
Chi da sempre lavora con i giovani sa che un metodo efficace per motivare deve far leva sulla capacità di suscitare comprensione empatica, arma che aiuta spesso a sottrarsi alla tirannia di sé troppo ingombranti. Già l’io, il sé, altri inciampi non da poco.
Ma non scoraggiamoci: importante è continuare a guardarsi attorno, cogliere dei segni capaci di costituire senso di comunità e voglia di testimonianza. Importante è che ci sia sempre qualcuno disponibile a lucidare le targhette delle pietre di inciampo, per capire e segnalare in questo modo quali, invece, siano i nostri quotidiani inciampi da rimuovere.