Non si sa più cosa pensare. O, meglio, forse si rischia di non aver più lo spazio per pensare. O troppo pieni o troppo vuoti. Le notizie ci arrivano da tutte le parti: dalle chat, dalle news sullo smartphone, dalle notifiche sui social, ovviamente (ma ormai in modo quasi minoritario) dalla carta stampata e dalla tv. Parole che si sommano o che litigano fra loro, che si accavallano in testa creando ripetizioni come mantra sui temi del giorno. Eppure, se appena ti fermi un attimo, hai l’impressione di non sapere nulla. Nulla, almeno, di quello che vorresti sapere, confondendo un po’ anche la notizia in sé con la ricerca di un suo significato.

Tutto, certo, è condizionato e contrassegnato dall’epoca della pandemia, per cui ogni argomento viene in fondo finalizzato a considerazioni che potevano valere prima e che forse non varranno più dopo. Ma mentre l’idea del prima è molto chiara (le nostre vite riviste alla moviola fino a fine febbraio 2020), il dopo non ha un chiaro punto di partenza. La fine dell’incubo, si dice. Affidata alle vaccinazioni di massa o alla più o meno vagheggiata “immunità di gregge”, sul cui possibile raggiungimento in tempi più o meno brevi, peraltro, gli stessi esperti non concordano affatto.

Viviamo nella nostra bolla, fragile, isolata da quella degli altri. Tutto questo se abbiamo avuto la fortuna di non essere stati toccati nemmeno di striscio dalla malattia, altrimenti le nostre bolle di protezione si sarebbero già dissolte in un attimo, lasciandoci in balia della sofferenza, dello smarrimento, della solitudine.

In realtà la pandemia tante cose non le ha azzerate: non ha sospeso le guerre (non è stata accettata la richiesta di armistizio internazionale mossa per due volte dal papa e da organismi internazionali), non ha fatto cessare  gli esodi dei profughi che hanno visto anzi peggiorare la precarietà delle loro sistemazioni, non ha azzerato gli odi razziali (forse esasperati da nuove povertà e restrizioni), non ha messo fine a situazioni di sfruttamento  e non ha migliorato (anzi!) le condizioni  climatiche o le emissioni di Co2. Tutte cose che sembrano far da sfondo, scenari lontani che stentano a trovare una loro messa a fuoco, anche se, in realtà, sono co-fattori della pandemia che stiamo vivendo (come nel caso degli squilibri dell’ecosistema o della diseguale distribuzione di risorse anche alimentari).

Ma su come tutto questo cambierà davvero il dopo non ci sono ancora proposte concrete o, se ce ne sono, vengono presentate per ora in modo cauto, per non sconvolgere la rassicurante attesa del “ritorno alla normalità”. Una normalità che spesso le interviste dei Tg preferiscono individuare e indicare nel ritorno alla possibilità di tornare a sedere tranquillamente ai bar per gli ormai mitici aperitivi o a cenare al ristorante; o anche nella possibilità di usufruire di strutture sportive, di tornare allo stadio a vedere le partite di calcio dal vivo. Naturalmente anche nel poter riprogrammare viaggi e spostamenti, specie in accattivanti località turistiche…

Intanto, qua e là nelle piazze o accanto ai cancelli di qualche scuola, alcuni studenti, di tutte le età, sono accampati con telefoni e tablet per seguire la didattica a distanza (ravvicinata) e per mostrare così la loro contrarietà a essere nuovamente “tagliati fuori” dal circuito scolastico, intessuto di relazioni quotidiane, di affetti e anche di lezioni e proposte culturali.

I loro rappresentanti lo dicono chiaramente, con i megafoni o ai microfoni: vogliamo per sempre scuole sicure, cioè con classi ridotte, con collegamenti di wi-fi efficienti, ma anche trasporti, funzionanti e dedicati, come in molti paesi europei. I più informati citano numeri e tabelle, chiedendo conferme ufficiali sui dati del contagio nelle scuole (sempre piuttosto fumosi, contraddittori e difficili da reperire), testimoniano disagi di apprendimento e relazionali, propri e dei loro fratelli più piccoli. Qualche volta i ragazzi sono affiancati dai genitori, che, dal loro punto di vista, testimoniano la difficoltà a lavorare da casa con i figli che fanno lezione o, al contrario, non sapendo a chi affidarli nel momento in cui, nelle zone rosse, anche le scuole dell’infanzia vengono chiuse.

Trovarsi per molte ore davanti a uno schermo per imparare non è in effetti molto gratificante. Né per gli adulti e tanto meno per bambini e adolescenti: manca il feedback immediato che si trova nello sguardo dell’insegnante, nelle battute dei compagni, nella possibilità di domande che figurino fatte a nome di tutti e non facciano sentire il disagio di essere individualizzati come quelli che non hanno capito e si affidano magari allo strumento delle chat di gruppo durante il collegamento.

Probabilmente il disagio degli adolescenti in DAD ha, però, radici più profonde e più risalenti: relazioni affettive, anche famigliari, fragili o malate, scarsa soddisfazione nel percorso di formazione della propria identità, impossibilità di costruirsi specchiandosi negli altri e dagli altri traendo rinforzo ai propri comportamenti. Tutte cose che gli psicologi stanno studiando per venire incontro ai disturbi alimentari, ai comportamenti autodistruttivi, al rifugio patologico nelle proprie stanze, vissute come isole da non abbandonare più per nessun motivo. Accorgendosi solo ora, per la sua mancanza, di quante funzioni di supplenza siano delegate alla scuola e da essa, in qualche modo, comunque svolte a sostegno dei ragazzi e anche delle loro famiglie (che continuano, peraltro, ad apprezzarne maggiormente l’aspetto della custodia).

I ragazzi, realisticamente, hanno capito tutto e purtroppo lo dimostrano proprio nella varia gradazione del loro disagio. Hanno percepito la gravità e profondità del vuoto: vuoto di relazioni, ma soprattutto di significati. Le relazioni sui social, moltiplicate con il loro bisogno di like e di visualizzazioni, sono in realtà una rappresentazione di relazione, una figura che le rappresenta ma anche le nasconde.  Altra cosa (come piacere e come sofferenza) avere addosso lo sguardo degli altri, i momenti da attendere e da temere, le telefonate che non si avvitano su se stesse ma stabiliscono ore e luoghi di incontri, cioè di attimi di vita da preparare, aspettare, da collezionare con gioia o da cancellare nella memoria. Emozioni e sentimenti, forse, anche per capire come spendersi, ora che la riuscita scolastica è collegata quasi più all’efficienza dei collegamenti di rete, o alla capacità degli adulti di non ripetere on line le già logore liturgie delle lezioni frontali, che non alla voglia di apprendere e misurarsi.

Tuttavia, quando hanno trovato adulti concreti, capaci di trasmettere segnali forti di attenzione al mondo e agli altri, capaci di indirizzare energie per salvare e salvarsi in un’arca di Noè costruita da sforzi comuni, i ragazzi hanno saputo, in questi mesi, dare il meglio di sé e della loro creatività. Il volontariato giovanile in molte città e situazioni è aumentato (dicono le statistiche) fino al 110%: molti ragazzi hanno sostituito gli anziani, volontari da sempre ma ora rifugiati in casa, hanno fatto pacchi per le spese per persone in difficoltà, recapitato medicine, accompagnato alle visite o inventato applicazioni per consentire di usufruire servizi sicuri da casa.

Certo, altri hanno fatto assembramenti, si sono ubriacati per strada, hanno manifestato contro chiusure di locali e hanno fatto feste private… Un comportamento solo giovanile? Considerando non solo l’età dei protagonisti di queste sfide, potremmo vederli non molto differenti dalle provocazioni dei signori di mezza età che hanno riempito i ristoranti o le vie dello shopping, lamentandosi per le perdite incombenti di libertà e di democrazia. Un mondo del prima, che forse senza le idee troppo chiare sui diritti prevalenti ed essenziali e sul loro esercizio, rivendica oggi il ritorno a situazioni di vita che il crescere delle disuguaglianze non renderà più possibili, come erano, dopo.

Tra il prima e il dopo uno spazio di mezzo, tra gli affanni del quotidiano, ci potrebbe ancora consentire di recuperare. Siamo tutti adulti in DAD, che dovremmo, oggi, avere il coraggio di testimoniare a cosa sapremo rinunciare, dopo, per riempire almeno un po’ il vuoto dei giovani, offrendo il tempo non affannato di una ricerca insieme, di una consulenza disinteressata, di un’esperienza condivisa, pronta ad aprirsi al cambiamento. Qualcosa fatto con i giovani, progettato con loro e non per loro. Un cambiamento che non conosciamo, che teoricamente è a volte lontano dalle nostre aspettative, ma che è frutto di passione comune.  L’unica che poteva aiutarci prima e che potrebbe salvarci dal vuoto di senso e di prospettive comuni, dopo.