Un anno strano è una storia drammatica, in un contesto di particolare complessità, che ho narrato con stile realistico e animo appassionato, “inseguendo” Romy nelle sue gesta delinquenziali ma anche e soprattutto nel suo conflitto interno fra il modello criminale e i suoi bisogni più profondi, legati alle deprivazioni e alle violenze subite nell’infanzia e nella prima adolescenza. A tutto ciò sono connesse storie di adulti che si sono incrociate scattando attorno a lei come una trappola. Il groviglio verrà sciolto solo quando a scattare saranno, a sostegno dell’agire (spesso fuori dagli schemi) del magistrato Malavoglia, sinergie mosse dall’empatia e dal coraggio di persone, anche diversissime, animate da un comune senso di giustizia. Non a caso ho dedicato il romanzo A tutti coloro che, nei rispettivi ruoli o senza alcun ruolo formale, si spendono perché non ci siano ragazzi “predestinati” al male, cagionato o subito.
Nell’insieme, Un anno strano è un romanzo d’azione e, nel contempo, giocato costantemente sul filo di emozioni anche profonde, con suggestioni e spunti di riflessione, in particolare, sul tema del passato, quasi un personaggio ulteriore della storia. Il passato che per un ragazzo può essere, pur breve, una pesante zavorra; ma che, peraltro, è un immenso fondale dal quale, se esplorato con lo scandaglio della memoria, della critica e dell’autocritica, possono emergere elementi decisivi per la comprensione del presente e la costruzione di un futuro migliore.
So ormai a memoria quanto sopra: la parte essenziale della scheda che metto a disposizione del pubblico in occasione delle presentazioni di Un anno strano. I lettori, almeno quelli (non pochissimi) che mi hanno scritto dopo aver letto il romanzo, hanno mostrato di aver ben compreso, di solito condividendolo, lo spirito che mi ha mosso alla scrittura (anche) di questo libro e, per l’appunto, i contenuti essenziali di esso. Lo stesso si può dire per chi ha finora recensito Un anno strano. Con un’eccezione, che mi crea dispiacere perché la recensione pubblicata sul n.2/2020 di Minorigiustizia (uscito quasi a fine 2020) è stata scritta da una persona che stimo ma che mi sembra aver compiuto, pur nel quadro di un giudizio non privo di valutazioni positive, un errore di prospettiva. Errore che si è tradotto in valutazioni, rispettabilissime, che mi sembrano però poco fondate e tali da dare al lettore della rivista un’impressione sul libro sfalsata rispetto alla realtà. Per questo ho deciso di scriverne qui: non per “drammatizzare” (?), ma perché chi visita il sito possa avere contezza e giudicare autonomamente. Motivo in più per comprare il romanzo, se non già fatto…
Il recensore, che non nomino per evitare personalizzazioni, attribuisce un rilievo centrale nel romanzo («Emerge poi soprattutto…») al «quadro di debolezza del sistema della giustizia minorile e più in generale della rete pubblica a protezione dei minorenni». La solitudine di Malavoglia sarebbe il segno delle difficoltà operative delle pubbliche autorità: infatti «I servizi sociali non si vedono mai. I colleghi magistrati sono scarsamente motivati, poco competenti» e interessati a tutt’altro (viene richiamato il capitolo Copioni). Avrei, peraltro, rappresentato anche «gli anticorpi alla crisi del sistema»; contesto nel quale viene citato Malavoglia, che però, sempre a giudizio del recensore, ci mette sì, come altri, empatia e creatività, ma «talvolta appare eccessivo nella sua creatività».
Al recensore, infine, non è andato giù il racconto “Tiberio” (corpus extraneus), ma questo è un altro discorso, che lascio alla fine.
A questo punto voglio, anzi devo (per rispetto nei confronti del lettore), essere ben chiaro, anche come ex magistrato che ha operato a lungo nel minorile: il focus del romanzo non riguarda affatto “il sistema della giustizia minorile” e “la rete pubblica a protezione dei minorenni”. Ciò, in un’opera con le caratteristiche già richiamate, costituisce solo uno sfondo, connotato dalle denominazioni e localizzazioni di fantasia presenti già in Messa alla prova. Sempre senza assurgere ad alcuna centralità, l’apparato istituzionale (giustizia e carcere minorile; servizi) era più presente in quel primo romanzo, con i suoi aspetti funzionali e di elasticità o disfunzionali e di rigidità; questi ultimi legati, oltre che a progettualità dall’alto e di facciata, soprattutto a talune persone (il presidente Clementini, la giudice Facelli…), a differenza di altre quali la giudice Veneziani, i giudici onorari Martigny e Leotta, l’assistente sociale Barbieri, la psicologa Possenti…
Sembra essere sfuggito a questo recensore di Un anno strano (pur attento, anche a certi particolari) un aspetto di fondo: Romy brucia fino in fondo, sempre più rapidamente e disperatamente, le tappe della sua “diversità” e con ciò riesce purtroppo a rendere inefficace, per lei, l’agire istituzionale ordinario (così come il padre, entrando nella banda di Francis, contesto in cui Romy era cresciuta, aveva reso la figlia “invisibile”). Malavoglia chiede e ottiene misure cautelari, chiede e ottiene la condanna di Romy a tre anni e mezzo di carcere, chiede e ottiene la decadenza del padre della ragazza dalla responsabilità genitoriale… I giudici ci sono, in questi passaggi procedurali, e c’è anche un dialogo di Malavoglia con Ilaria Castagno, titolare della procedura riguardante il padre della minore e considerata dal suo collega una brava giudice. Così come ci sono gli operatori sociali, in occasione di udienze e interrogatori, e c’è anche la già citata psicologa Possenti, che ha con Malavoglia (pp. 106-107) un significativo scambio di battute. Peccato che Romy, fino alla svolta che maturerà nella parte finale del romanzo, rifiuti “agganci”, sostegni e garanzie perché ha in testa ben altro, che la spinge, piuttosto, a cercare talvolta di “trattare” direttamente con il p.m.
Scrivere, poi, che «I colleghi magistrati sono scarsamente motivati, poco competenti, interessati al piano ferie e alla carriera più che a discutere del merito dei casi” travisa, enfatizzandone e generalizzandone la portata, un passo del capitolo Copioni che nel testo del romanzo occupa circa tre pagine (dal fondo di p.24 a quello di p.27) a fronte delle circa 250 di esso.
In tale passo si parla di una riunione d’ufficio che tocca dirigere a Malavoglia, sostituto procuratore anziano, in assenza del procuratore. Le riunioni d’ufficio (tanto più di un ufficio requirente come la procura della Repubblica) di norma non vengono fatte, come intuibile, per discutere del merito di singoli casi bensì di questioni organizzative o interpretative di interesse comune. Su tale sfondo ho descritto alcune dinamiche interpersonali riguardanti Malavoglia e gli altri sostituti e il passo, che ha un tono ironico, è stato scritto soprattutto come momento d’intermezzo e alleggerimento fra i passi precedenti e successivi, segnati da fatti e tensioni ben maggiori. Il lettore ha così la percezione del possibile intersecarsi di “copioni” esistenziali dove si mescolano la routine (anche quella di una riunione d’ufficio, dove si parla anche del piano ferie) e drammi più o meno preventivabili. Il brano, quindi, andava/va letto nella sequenza narrativa e logica su cui è imperniato il capitolo Copioni, ancora nella parte iniziale del romanzo (si tratta del terzo capitolo, su ventiquattro).
Con ciò, spero chiarito che non è stata “la crisi del sistema” ad ispirarmi l’idea e i contenuti di Un anno strano, quanto agli «anticorpi alla crisi del sistema» resta da dire, più semplicemente, che pur in una situazione grave come quella di Romy possono esservi chances di recupero se c’è gente disposta ad andare a fondo, anche nel passato altrui e financo proprio e anche assumendosi dei rischi, e se si creano giuste sinergie, all’interno e all’esterno delle istituzioni. Su questo terreno, peraltro, secondo il recensore c’è, come già accennato, il problema degli eccessi di “creatività” di Malavoglia. Vengono citati quali esempi comportamenti (descritti nei capitoli Ponte rio morto e Domenica d’agosto) che il sottoscritto ritiene, invece, positivi in quanto coerenti con ciò che è alla base del romanzo e ho sintetizzato nella scheda su di esso. Sono, ovviamente, valutazioni opinabili. A me importa chiarire, comunque, che non ho voluto fare alcuna “lezione sugli anticorpi” ma raccontare una storia di fantasia con un succo credibile, perché non galleggiava sulle nuvole ma prendeva le mosse dal magma della realtà, e con suggestioni auspicabilmente utili come stimolo alla riflessione.
Forse il fatto che la recensione fosse destinata alla pubblicazione sulla rivista promossa, in collaborazione con l’editore FrancoAngeli, dall’Associazione italiana dei magistrati minorili e per la famiglia ha fatto sì che la visuale del recensore privilegiasse in qualche modo le questioni legate agli apparati istituzionali, senza considerare adeguatamente che la sostanza del romanzo verte su altro (ad esempio anche sul rapporto fra Romy e il padre, figura presente fin dal primo capitolo e il cui rilievo avrebbe forse meritato qualche cenno più approfondito).
Per chiudere su questo argomento: nella presentazione on line del 14 dicembre 2020 mi è venuto spontaneo, soprattutto come lettore e comunque non per insensati confronti “autoriali” con Gianrico Carofiglio, segnalare che in diversi dei suoi romanzi vi sono ambientazioni e vicende giudiziarie spesso tutt’altro che lusinghiere per il “sistema”. Senza che alcuno metta in dubbio, mi sembra, che in tali romanzi ciò che conta davvero, tanto per l’autore quanto per i suoi lettori, non sia l’approfondimento dell’analisi critica di esso; che funge, piuttosto, da sfondo e occasione di vicende umane complesse, spesso drammatiche, dove la concatenazione dei fatti, la psicologia delle persone, l’incidenza (non di rado) del caso, ecc… assumono un rilievo narrativamente ben maggiore. Come logico, trattandosi della storia su cui s’impernia un romanzo.
Avviandomi alla conclusione: come già accennato, il racconto intitolato Tiberio è stato ritenuto dal recensore un corpus extraneus. Nulla da eccepire, ovviamente, alla libera valutazione altrui, se non fosse che questa mi appare ancora frutto d’incomprensione (di ciò che, per vero, mi sembra essere stato, invece, ben inteso da chi altri ha letto il romanzo, l’ha valutato ˗ anche premiandone l’autore in un concorso letterario nazionale intitolato a Vittorio Alfieri ˗ e l’ha recensito). Lo dico anche in base a un indizio “testuale”: le parole con cui si chiude la recensione. Secondo chi l’ha scritta, io sarei stato consapevole di quella estraneità e, giocando d’anticipo rispetto alla critica, avrei, subito dopo la conclusione del racconto, messo a bella posta una certa domanda in bocca ad Elettra, la compagna del magistrato. Giusto per provocare la risposta di Malavoglia-Tomaselli (testuale), che avrebbe così ˗ a questo punto lo dico effettivamente con parole mie ˗ cercato di salvare capra e cavoli.
Cerco di non farla troppo lunga (andate direttamente alle fonti comprando il libro…), ma devo pur essere chiaro con chi leggesse queste note. Malavoglia, durante un viaggio in treno con la sua compagna, ha riletto un suo racconto giovanile. Elettra ha più motivi, del tutto naturali, per incuriosirsi. Malavoglia (che non è Ennio Tomaselli) dà una risposta articolata e c’è un sia pur breve dialogo (il passo occupa un po’ più di mezza pagina –v. pp. 84-85).
Ho sicuramente voluto incuriosire il lettore, ma non si trattava di un giochetto letterario più o meno astuto, di una sorta di piccolo “effetto speciale”, bensì di un momento di quell’attraversamento del passato che è uno dei fili conduttori del romanzo (bello o brutto che sia). Passato, memoria e testimonianza sono termini collegati, tutti rilevanti, e in tale contesto quel presunto “corpo estraneo” aveva e ha una sua funzione. Mi spiace che ciò non sia stato compreso, in particolare da una persona che conosco e stimo, mentre è stato ben inteso anche da persone meno titolate. Il fatto è che non è per nulla facile fare una buona recensione di un romanzo. Mi ci sono cimentato anch’io, qualche volta. Occorrono soprattutto comprensione approfondita del testo, corretta metodologia di lavoro e prudenza di giudizio. E non è detto che bastino.