Si è discusso e si discute molto dell’utilità della Memoria del passato, anche nelle sue pieghe più tenebrose, per aiutare a scongiurare il ripetersi del Male nel presente.
La Memoria è sicuramente indispensabile, contro ogni tentativo negazionista e contro il rinascere di movimenti che riaffiorano minacciosamente, qua e là nel mondo. Da sola però non è certamente sufficiente, se non è aiutata a creare anche occhi capaci di decifrare il presente e denunciarne i mali. Deve cioè creare consapevolezza, coscienza del pericolo possibile, tendenzialmente sempre in agguato.
La consapevolezza, poi, ha cammini spesso tortuosi, a volte apparentemente casuali.
In questi giorni di fine gennaio, in occasione della giorno della Memoria, noi siamo aiutati da testimonianze di percorsi molto differenti e anche da riflessioni sull’oggi. Sono collegate da un filo, che unisce il malessere dei nostri giorni tormentati al bisogno di una rinnovata coscienza per noi, uomini e donne, che non possiamo dimenticare quel passato, ma soprattutto non possiamo crearci alibi per non agire sul presente.
Leggiamo e ascoltiamo:
Da Sopravvissuta ad Auschwitz, di Eva Schloss
La consapevolezza è a volte scontata, improvvisa e dolorosa. Quando si vivono direttamente gli eventi è inequivocabile, meno facile è invece per gli altri prendere coscienza che tanti segnali non possono essere trascurati.
Con la disintegrazione dell’impero austroungarico dopo la Grande Guerra, la città aveva assistito ad episodi di guerra civile. A cavallo dei due secoli, le differenti nazioni e i vari ruppi etnici avevano dilaniato l’impero e, mentre i politici si insultavano in lingue diverse in parlamento, all’esterno si riversavano lavoratori in miseria per protestare contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, gli alloggi affollati e contro un’ondata di migranti che, secondo loro, rendeva difficile trovare un impiego …
I senzatetto erano drammaticamente cresciuti, la gente dormiva in brande sotto le pensiline dei tram, faceva la fila per dormire nei dormitori, non poteva permettersi di mangiare. Mentre la Vienna dei ricchi si riuniva nei caffè per discutere, la Vienna dei poveri si recava nelle mense popolari per ripararsi dal freddo, leggere le notizie sui giornali e ricevere un piatto di minestra. Quei quotidiani spesso raccontavano che tutti i problemi avevano un’unica causa: gli ebrei . Il sindaco incolpava gli uomini d’affari ebrei delle dure condizioni di vita e alcuni scrittori si mobilitavano per un movimento pangermanista e nazionalista che si rifaceva a leggende su un popolo ariano d’Europa, superiore alle altre genti dell’impero ….Non dimenticherò mai la paura e il terribile presentimento che provai all’arrivo a Vienna dei nazisti: furono accolti dal suono delle campane, da una folla acclamante e da gigantesche bandiere rosse con svastica nera appese ad ogni finestra …
D’improvviso erano scomparsi gli amici fraterni della mia infanzia, i soliti negozianti, gli autisti di tram e portieri, che avevo conosciuto fino al giorno prima, ora obbligavano gli ebrei a mettersi in ginocchio e a grattare via dai marciapiedi slogan che inneggiavano alla democrazia. Un uomo, sospettato di essere ebreo per il suo aspetto, veniva buttato giù dal tram e molti studenti venivano cacciati dalle scuole al grido di “fuori gli ebrei, i colpevoli!”.
Da Dora Bruder , Patrick Modiano
Anche di fronte a realtà concrete, terribili e disumanizzanti, siamo tentati di difenderci “non riuscendo a crederci”. Così è capitato anche ad alcune persone, non solo ebrei, rinchiuse nel velodromo di inverno di Parigi, luogo di arresti di massa durante l’occupazione nazista, da dove nel luglio del 1942 più di 5000 furono deportati in Germania.
(lettera di Robert Tartakovsky, critico d’arte) Sabato 20 giugno 1942.
Miei carissimi, ho ricevuto ieri la valigia, grazie di tutto. Non so, ma temo una partenza precipitosa. Oggi devo essere rapato a zero. Da questa sera chi dovrà partire sarà sicuramente chiuso in un edificio speciale e sorvegliato a vista, accompagnato anche al gabinetto da un gendarme. Su tutto il campo aleggia un’atmosfera lugubre. So che riceveremo tre giorni di viveri per il viaggio. Temo che sarò partito prima di ricevere i pacchi, non preoccupatevi, l’ultimo è molto ricco. State tranquilli, sarete nei miei pensieri.
Sono le 6.30.Temo di portarmi troppo, se chi perquisisce ne ha voglia può buttare giù una valigia se manca il posto o secondo l’ umore … Non appena non avrete più notizie, non perdete la testa, non datevi pena, aspettate con pazienza e fiducia, con fiducia in me. Il silenzio non vuol dire necessariamente che vada male.
Dite a mia madre che preferisco fare questo viaggio, avendo visto partire tanti altri per l’Altrove …
State vicini a mia madre e dite ad André che la persona di cui ha l’indirizzo l’ho incontrata il 1 maggio e che il 3 venivo arrestato (forse solo una coincidenza?) … Anche malati e infermi sono stati chiamati in gran numero per la partenza. Penso a tutti gli amici che con tanto affetto mi hanno aiutato a restare libero. Grazie di tutto cuore a quanti mi hanno fatto “passare l’inverno”. Lascio questa lettera in sospeso, devo preparare la borsa. Penna e orologio andranno a Marthe, qualunque cosa dica mia madre. Mamma cara e voi amatissimi, vi bacio con commozione.
Fatevi coraggio. A presto. Sono le 7.
Da Noi partigiani a cura di Gad Lerner
Altre volte la consapevolezza è immediata, come reazione ad atti clamorosi di ingiustizia o come educazione spontanea che nasce dal confronto con altri, con le loro vicende condivise, con i loro ideali .
intervista a Sante Bajardi
Da piccolo abitavo a Torino, quartiere barriera di Nizza, via Ormea 150. Un caseggiato di 118 famiglie.
Quando il 25 luglio del 1943 arrivò la notizia che Mussolini era caduto, l’applauso che si alzò da quei palazzoni, costruiti per gli operai dell’ultima periferia della città, era davvero fragoroso. Una cinquantina di ragazzi scesero in strada verso i luoghi dove si buttavano giù i simboli del fascismo. Andai anch’io e svelammo al mondo quello che nel vicinato sapevamo già: in quelle case eravamo tutti antifascisti …
Io ero figlio di un sarto siciliano e di una madre altoatesina, mio padre mi sognava ragioniere, ma eravamo troppo poveri e mi mandò alle scuole di avviamento professionale, l’Avogadro, allora il miglior istituto tecnico d’Italia.
In famiglia la politica non entrava. I primi dubbi me li mise una ragazza con cui filavo nel 1940. Era la commessa della panetteria vicino a noi, abitava a Moncalieri e veniva da ambienti antifascisti. Quando la accompagnavo a casa dopo il lavoro mi diceva cose che mi facevano pensare.
Così quando arrivò il 25 luglio sapevo da che parte stare. Entrai nelle SAP, eravamo giovanissimi, la generazione operaia del biennio rosso era stata ormai dispersa, distrutta. Noi siamo venuti dopo e non li abbiamo conosciuti. Il nostro obiettivo all’inizio era quello di far propaganda tra la gente, nelle boite, nelle osterie del quartiere, in modo che al momento giusto saremmo stati pronti a difendere il rione e le fabbriche.
intervista a Gastone Malaguti
Una mattina del 1938 ero seduto al mio banco in seconda media a Bologna. Accanto a me di solito c’era Davide, uno dei miei migliori amici, nel pomeriggio andavamo insieme in piscina. Quella mattina Davide non venne a scuola. Avevano comunicato a tutti gli ebrei che non si sarebbero dovuti più presentare in aula. Mi alzai di scatto e protestai “Cosa vuol dire? Davide non ha fatto nulla di male. Perché non si deve presentare più? Non è giusto!” Un caporione fascista tutto agghindato in orbace mi prese per un orecchio e mi buttò fuori della classe.”Quindici giorni di sospensione, così impari a protestare!” Tornato a casa, dissi a mio padre “In una scuola così non voglio più andare”. Mi rifiutai sempre, tanto che cominciai a lavorare come fattorino… Ma di lì mi fu chiaro che le ingiustizie andavano combattute. Sarà per questo che, quando arrivò l’8 settembre, a me e ai mie amici sembrò normale comportarci come facemmo.
intervista a Germano Nicolini
“Non dite che siete scoraggiati,che non ne volete più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere”.
Queste parole le ha scritte un mio amico, Giacomo Ulivi, nell’ultima lettera prima di essere fucilato a diciassette anni nel novembre 1944 a Modena. Ogni giorno della mia vita Giacomo continua ad essere con me.
Ed è grazie a persone come lui che ho resistito a testa alta.
Da Che cos’è la guerra, di Domenico Quirico.
A volte ci illudiamo che, finite le guerre, la pace sia la soluzione di tutto. Quale pace? quando la pace ti porta la necessità di rinnegare la tua terra e di fuggire, nuove guerre o nuove forme di guerra possono sempre essere incombenti. Inevitabili, anche se sbarriamo porte e finestre; ma dalla nostra parte abbiamo un’arma potente e pacifica, di cui spesso non abbiamo né rispetto né consapevolezza.
Le nazioni Unite, create nel 1945 per scongiurare definitivamente la guerra, sono un fallimento: i conflitti sono troppo piccoli e feroci per passare al setaccio della trattativa e troppo complessi per trasformare le risoluzioni, gli inviti,le parole, in tregua, accordo, pace. La guerra per l’ennesima volta ha cambiato aspetto, ha scombinato le carte di chi credeva di averla imbrigliata in regole, limiti, confini.
Le guerre di oggi, intorno a noi, non passano, non finiscono, ingoiano il dopoguerra, diventano eterne. Non c’è una magnifica pace, la firma di un accordo, non ci sono i reduci, i sopravvissuti che tornano a casa, guardano le rovine, si rimboccano le maniche e cominciano faticosamente, piangendo, a ricostruire. Il combattente, ma anche il civile, travolto dal conflitto non riesce ad uscirne. Il dopoguerra è ancora la guerra. Perché non c’è una via di uscita, non c’è una soluzione, il conflitto rimbalza su se stesso. Il sopravvissuto diventa profugo eterno, che non ha più alcuna speranza di tornare a casa, si trasforma in migrante e trasferisce la sua disgrazia in luoghi lontani e tra genti estranee che lo respingono come un possibile portatore dell’epidemia della violenza e della povertà. Non chiudiamo gli occhi. Guardiamo. Nessuno di noi è immune, la peste è entrata nelle città, anche nella nostra. Chiudere le porte, sbarrare le finestre non ci salverà .…
Che cosa resta all’occidente impaurito e malato per resistere? Il Diritto.
Ḗ questa la vera divisione del mondo, da una parte noi con la Legge che rende gli uomini uguali, che punisce l’arbitrio, codifica il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, che spetta ad ogni uomo; dall’altra, il mondo del non Diritto, dove chi ha il potere può arrestare, sequestrare, uccidere, senza che nessuna legge venga a chiedergliene conto.
Da La generazione del deserto, Lia Tagliacozzo; da un’ intervista a Lia Tagliacozzo di A. Zaccuri, l’Avvenire, 20/1/2021
A volte ciò che tortura oggi i “figli degli orfani”, i nipoti dei deportati, è proprio la mancanza di notizie su quanto abbiano vissuto i loro famigliari in quei giorni terribili. Non tanto quanto accadde, faticosamente ricostruito dagli storici, ma del loro sentire più o meno consapevole.
Anche se, secondo l’autrice, anche storicamente siamo lontani dalla piena consapevolezza di ciò che significarono quegli anni.
Noi, figli ultimi di chi allora patì bambino, siamo compressi in una memoria privata, a volte segreta e taciuta, e una memoria mediata dalla conoscenza e dalle istituzioni …
Gli israeliti romani fino a quel momento non erano stati minacciati, per quanto i tedeschi avessero accentrato ogni potere nelle loro mani. Cominciava a farsi strada nei loro animi la speranza che gli eccessi, dei quali nelle altre terre precedentemente invase dagli eserciti germanici i loro fratelli di fede erano state vittime, non si sarebbero ripetuti a Roma. Ma nonostante il loro impegno a non farsi notare, a camminare lungo i muri, a non attirare mai l’attenzione, come se il solo vivere desse agli occupanti il diritto di decidere la loro vita, gli ebrei romani sarebbero stati imbrogliati. Eppure si fidarono. La prima volta il 26 settembre con l’estorsione di 50 kg di oro.
Cosa accadde ai miei in quei giorni? cosa sapevano di quanto stava accadendo? Cosa capirono? Avevano paura o si sentivano al sicuro? Come vivevano?….
…”In Italia non si è ancora sviluppata una coscienza storica e civile di quello che il fascismo ha rappresentato. E questa mancata consapevolezza resta un fatto pericoloso, che ha molto in comune con le esplosioni di intolleranza che negli ultimi tempi si sono fatte solamente più rumorose rispetto a qualche tempo fa.
In Italia l’antisemitismo è sempre esistito, ora però ha conseguito una sorta di legittimità, che troppo spesso viene confusa con la libertà di espressione”.
Da Le strade dritte, racconto di Ennio Tomaselli
Anche nelle storie personali il passato sembra giocare a rimpiattino con il nostro destino, quasi nascosto nelle pietre e nelle vie delle città. Ma proprio dal passato si può trarre consapevolezza per girare pagina. La storia di un ex condannato, che ha scontato la sua pena e che incontra, dopo anni, una “sua” giurata: insegnandole anche qualcosa e non solo a lei …
«…. Niente accuse di fatti di sangue. Avevo ventisette anni ed ero un fiancheggiatore. Voi, di anni, me ne avete dati sette, era giusto e da quello, in galera, sono ripartito con la testa. Dovevi essere una giusta anche come prof».
«Ho sempre e solo fatto la prof. Mi avevano chiamato per sostituire un altro giudice popolare. Così mi ritrovai in quell’aula, con la fascia tricolore sul petto, a guardare te e quell’altro, che invece era anziano».
«Anche tu eri giovane, ho capito che ne avevi solo pochi più di me. Alla sbarra pensi di tutto. Ci avevano beccato per la dichiarazione a scoppio ritardato di un pentito. Sono passati quasi quarantanni e quell’aula, anche se non più di corte o tribunale, è sempre lì, a cento metri da noi. Forse gli unici a ricordarsene»
«Sai cosa penso? Forse c’entrano anche queste strade dritte, questi incroci perpendicolari…» «Tipo sbarre». Anche Chiara sorrise: «Fammi fare la prof che deve esporre il concetto.
Questo: anche chi fa le vasche in via Garibaldi senza accorgersi di via Corte d’Appello e della Curia Maxima, che pure sono a pochi metri, e senza sapere niente … finirà per farsi attrarre, come da una calamita, in questo quadrilatero di strade e incrocio di storie. E allora saprà e capirà. La storia siamo noi e lo sono anche le strade che percorriamo, i palazzi, le chiese, i balconi!»
«Sì, basta pensare a come sono arrivato a sant’Egidio otto mesi fa … Ho deciso di tornare a Torino pensando che qui fosse meno difficile dare un senso alla vita. Da giovane il senso era, però, quello sbagliato e volevo riprovarci da anziano »…
Quando, dopo due settimane, Chiara lo rivide davanti alla chiesa, aveva un aspetto stanco e, accanto a sé, un ragazzo di colore.
«Lui è Hamid. L’avevo trovato, ubriaco, in piazza Statuto e me lo sono tirato dietro fino a dove sto, a san Donato. L’ho fatto lavorare nei mercati. Mi sono allevato l’erede, ma adesso tocca soprattutto a voi e al santo».
Chiara lo prese da parte: «Perché dici così, Franco? Come stai?»
«Come uno che ha avuto la pensione perché era già mezzo andato. Sai, Chiara, in carcere ho letto Pavese… Per lui Torino è amante e non madre né sorella. Io l’ho scelta come compagna di viaggio perché qui sei coinvolto comunque e, se ti dai da fare, magari di cose ne escono. Ho trovato voi e adesso anche Hamid. Con lui è come avere un figlio: ha sedici anni, come me quando arrivai qui, coi miei, dalla Sardegna».
A Chiara, per la commozione, non venivano le parole per rispondere. Franco continuò: «Mi basta sapere che mi fermerò sulla strada giusta, con il ricordo che porto e quello che lascio. Il resto della frase di Pavese tu, che sei prof, lo sai meglio di me». «Ma tu l’hai capito di più».
Era ormai buio. Nessuno dei passanti faceva caso a due anziani che salivano lentamente, come sostenendosi a vicenda, gli scalini della chiesa. Li seguiva lo sguardo di Hamid; che era lì per la prima volta ma, dopo aver camminato con Franco quasi dal fondo di via san Donato e averli sentiti parlare, aveva già capito quasi tutto. Anche che Cesare Pavese non era solo il nome di un posto pieno di libri dove era stato, con un educatore, prima di tagliare, inciuccarsi, salire sui tram e ritrovarsi in quella grande piazza dal nome strano.