Sabato 26 febbraio “La Stampa” ha dedicato due pagine agli interventi di scrittrici (Valeria Parrella, Viola Ardone) e scrittori (Giorgio Vasta, Maurizio Maggiani) sul tema della guerra in Ucraina. Mi ha colpito il fatto che la maggior parte di loro si sia descritta quasi come impreparata di fronte alle immagini e al trauma emotivo della guerra. Quell’esperienza l’aveva vissuta sulla propria pelle la generazione dei nonni e, indirettamente, quella dei loro figli (“una generazione di mezzo che è ancora viva in parte, sono i nostri genitori”). Chi è venuto dopo (“Noi siamo quelli che sono venuti dopo”) sembra non potersi sottrarre allo sgomento e al turbinio delle emozioni suscitate dal massiccio insieme di immagini e di voci così intense e ravvicinate, provenienti da uno scenario bellico reale e da popolazioni prese in mezzo a un conflitto sul suolo europeo. L’opposta enunciazione del solo Maggiani (“No, non provo nessuna particolare emozione, nessuno sdegno suppletivo…”) è, nel contesto di un intervento che mi sembra, nel merito, il più condivisibile, fin troppo marcata e netta per non apparire provocatoria. In sostanza: a queste emozioni dovremmo essere ormai assuefatti.

Su questi spunti svolgo qualche breve riflessione, da lettore di quella “generazione di mezzo”, nato cinque anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, da genitori a cui, come per tutti in quegli anni, la guerra non aveva risparmiato le sue asprezze.

Le immagini “di guerra”, nel senso di innumerevoli conflitti in ogni parte del mondo non esclusa l’Europa, sono state, nei vari decenni trascorsi da allora, una costante, alimentata non solo dalle memorie di genitori e altri prossimi congiunti ma anche e soprattutto dalla realtà del ricorso alla violenza degli apparati bellici: i carri armati sovietici a Praga nel ’68 (e già a Budapest nel ’56), i conflitti che negli anni ’90 insanguinarono vari Sati della ex Jugoslavia quali la Croazia, la Serbia e la Bosnia (diranno pur qualcosa, ancora, i nomi di Sarajevo, Mostar, Srebrenica), la guerra per il Kossovo e la stessa contesa fra Russia e Ucraina nella sua prima sortita bellica. Quella che, nel 2014, riguardò la Crimea e lo stesso Donbass e che è proseguita in forma strisciante, ma causando circa 14.000 morti, fino all’attuale aggressione russa. Il tutto per non parlare della Cecenia e delle ricorrenti ostilità fra Armenia e Azerbaigian.

Avendo presente tutto ciò, colpisce e stupisce leggere, per il post conflitto mondiale e guerra fredda, di “… velata certezza che noi mai più in Europa avremmo avuto una guerra calda, con colpi di fucile, sirene nella notte, facciate di palazzi crollate, tetti sfondati, notti di bombe, urla di civili, eserciti al fronte” e che “fino a qualche mese fa bombe e bombardamenti sono stati per me qualcosa che esiste soltanto nell’informazione e nella messinscena narrativa”. Preso atto, comunque, di tali affermazioni (in significativo contrasto con quelle di Maggiani, guarda caso meno giovane e prossimo anagraficamente alla “generazione di mezzo”), mi sembra che vadano svolte almeno un paio di considerazioni.

La prima muove dal fatto che la cultura della pace e (art.11 della nostra Costituzione) del “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” non è qualcosa che possa funzionare a corrente alternata, a seconda degli scenari geografici e di mutevoli criteri di opportunità (i “giri di valzer” di cui leggevamo nei manuali scolastici).

Conoscevamo tutti, da molti anni, le caratteristiche della Russia “di Putin”, così come abbiamo conosciuto e conosciamo quelle, non dissimili nella sostanza, di non pochi altri Stati, nei più vari scacchieri del mondo (e anche più vicino a noi). L’unico modo per tentare di prevenire o almeno contrastare tragedie come quella attuale in Ucraina non può che passare per una serie di scelte coerenti sul piano dei rapporti internazionali, compresi ovviamente quelli economici e commerciali. Come cittadino, ciascuno di noi, quali che ne siano età, cultura e posizione sociale, dovrebbe avere sempre ben presente la realtà della guerra: non per la sua immagine disturbante, da rimuovere o dimenticare, ma come male contro il quale non va mai dismessa la mobilitazione. Anzitutto sul piano della vigilanza, della memoria e della circolazione delle idee e della solidarietà. Questione che non può non coinvolgere a fondo anche gli scrittori

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Con il che passo al secondo punto e alla conclusione. Ogni persona, così come ogni generazione, è più sensibile a certi temi, problemi, miti. Ma nei libri e nelle letterature sono rappresentati tutti e per chi legge è come vivere più vite (Eco). Credo, quindi, che la scrittura sia essenziale anche quale veicolo di trasmissione di storie, emozioni e riflessioni sul tema della guerra, purtroppo una costante nella vicenda umana. Sì che nessuno, “al di qua o al di là della pagina” (quindi scrittore o lettore), finisca per farsi trovare, pur nello sconcerto e nel dolore che ci pervadono, quasi disarmato di fronte alla guerra quando essa, maledettamente, alza o rialza la testa. Le armi della cultura e della consapevolezza sono quelle che tutti possiamo e dobbiamo usare a testa alta.