Sembra il titolo di un romanzo rétro sulle memorie di un tempo passato, ancora vicino nel ricordo grazie ai racconti dei più anziani. Invece no, ora stiamo viaggiando su treni che sfrecciano velocissimi sui binari, imbavagliati nelle nostre mascherine regolamentari ffp2, che ci consentono di relazionarci (ma non troppo) e di sbocconcellare qualcosa di fretta, quasi di soppiatto, dopo le debite abluzioni con i disinfettanti di rito. Tuttavia le voci dei notiziari on line che spuntano dai cellulari o le immagini che si dispiegano dalle pagine dei giornali cartacei (anche se, ormai, sempre più rari) ripresentano gli orrori di sempre delle guerre.

Immagini di case distrutte, file di profughi in fuga, pianti e disperazione, dichiarazioni roboanti dei potenti e inascoltati appelli per la pace. L’orrore di sempre, corredato dai sospetti sui massacri scoperti e su quelli da scoprire, ma anche la novità della (solita) propaganda di guerra, questa volta diffusa tramite social, delle conferenze, degli incontri al vertice e perfino delle trattative on line, con linee internet evidentemente solidissime nonostante missili, bombe, interferenze dei droni.

Ci sembrava di stare riconquistando i nostri spazi, pur imbavagliati nelle nostre mascherine e sempre sulla difensiva contro gli attacchi di un nemico invisibile, dai nomi classici come le lettere dell’alfabeto greco. Ora, invece, si ripropone l’immagine di un nemico nuovamente molto visibile e concreto, con le sue sfide, le sue bombe, le sue distruzioni, i suoi carri armati pieni di giovani mandati verso il baratro e la disperazione.

Mi sembra per un momento, con l’aria che tira, quasi fuori luogo andare a presentare lontano da casa un romanzo che, a causa della pandemia, è ormai giunto alla seconda candelina senza essere finora riuscito a girare granché.  Di questi tempi la fatica di una presentazione non è legata solo al viaggio, alla trasferta o al sovrapporsi delle date: è proprio questo senso di vuoto e di minaccia incombente che rende pesanti i movimenti e forse incide perfino sull’eloquio.

In questo periodo, poi, forse trovano maggior consenso fra i lettori le pubblicazioni che consentono evasioni, di tipo geografico o psicologico, che suggeriscono scenari lontani, persino distopici, purché siano dichiarati tali, anche se ahimè ormai largamente consonanti con le ore del presente le minacce del futuro.

Ma poi ci ripenso e, in linea con il mio Un anno strano, concludo che per certi aspetti questo contesto storico è, in realtà, uno dei più adatti per parlarne. Proprio oggi sentiamo assonante l’incombere del passato sulla storia di tutti, compresa quella pur “corta” dei più giovani, la necessità di osservare con un “campo lungo” i vari problemi, senza doverli necessariamente inquadrare, per affrontarli, nelle classificazioni standard delle analisi o delle procedure.  Ancora: la necessità inderogabile di un’ottica di squadra, “l’essere tutti sulla stessa barca”, come si diceva fino a pochi mesi fa, quando affrontavamo il discorso contro i contagi e non contro la violenza di chi vuol risolvere le controversie con l’antico strumento dell’annientamento del nemico. Un’ottica di squadra che tuttavia la guerra vicino a casa ha già messo in crisi, ammesso che ci fosse davvero, con le contrapposizioni delle prese di posizione e delle scelte sul da farsi.

Non importa: lo scirocco che mi accoglie a Bari, e che forse mi ha seguito per tutto il viaggio lungo l’Adriatico, sembra proprio quello che in copertina sta scompigliando i capelli di Romy, la mia protagonista, rendendola nel contempo figura familiare ed enigmatica. Sto andando avanti, anche a macinare chilometri, proprio perché la storia di Romy mi sembra sempre significativa e attuale. Ѐ uscita dalla mia mente e dal mio pc, ma Romy è incredibilmente vera con il suo bisogno di attenzione, di protezione, soprattutto di rispetto. Bisogni che accomunano da sempre non solo tutti i ragazzi (anche quelli in fuga di oggi) ma anche tutti i deboli, i fragili e -perché no- tutte le vittime di violenza della storia.

Costruire momenti, seppur rapidi, di riflessione sulle possibilità di ascolto e forse anche di riscatto o almeno di riabilitazione significa pensare ostinatamente in chiave utopica? Significa rimpiangere i tranquilli scenari di “prima”, con le difficoltà ordinarie e gli ordinari disagi del passato? Oggi no, certamente no. Presentare un libro del genere, discutere sull’anno strano che è la vita di tutti noi, ricordarci che “siamo per sempre responsabili degli occhi che abbiamo incontrato” (come recita il proverbio africano della mia dedica) è anche uno sforzo di testimonianza.     Significa far appello, prima di tutto dentro la fatica del nostro quotidiano, alle possibilità di resilienza di tutti e di ciascuno, a quel senso di umanità residuo che ci dovrebbe richiamare alla continua, quotidiana, piccola e insieme enorme responsabilità di offrire risorse, suscitare speranze per spargere qualche seme di pace.