
Un costume da bagno e un paio di occhiali da nuoto appesi al gancio della doccia. Intorno le cabine, aperte come giocattoli smontabili, impilate le une sulle altre in attesa di essere portate via. Fine stagione su una spiaggia; quel costume e gli occhiali sono un’immagine simbolo delle giornate “lente” appena trascorse e fanno riemergere il vissuto di quelle ore, trascorse in una luce splendente dall’alba al tramonto. Giornate, però, in cui non si è riusciti, neanche da parte di chi ci si è messo d’impegno, ad accantonare i problemi del mondo: troppa la forza con cui hanno continuato a farsi sentire, anche se in un certo senso abbiamo abbassato il volume della risonanza dentro di noi.
Eppure anche i discorsi sotto gli ombrelloni sono stati in qualche caso, quest’anno, differenti. Soprattutto quelli legati ai racconti di vita, suscitati dagli echi degli avvenimenti, delle persone anziane. In essi sono affiorati episodi legati al tempo delle speranze alla fine della guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Ricordi talvolta un po’ confusi tra le pieghe della memoria, ma non di rado lineari e precisi come un testo di storia, con lo stesso filo rosso di collegamento: la testimonianza del “ci siamo già passati e momenti così non li vogliamo vedere più”.
Racconti di persone che hanno patito non solo per i pericoli e le privazioni ma anche per le persecuzioni dei vicini, o per aver preso posizioni di opposizione politica e di resistenza, a volte anche a costo di fratture familiari. Ma in quegli anni l’immagine della pace era all’orizzonte, con i colori di momenti possibili di felicità collettiva. Storie di ragazzi nati e cresciuti in campagna, abituati a nascondersi e a collaborare in modo più o meno consapevole con i partigiani, che intravvedevano con il desiderio, dietro le colline, il mare come simbolo di nuova libertà, un nuovo inizio, luogo di momenti possibili di spensieratezza. Sogni, a volte, bruscamente e amaramente infranti perché quel mare, icona di libertà, si era trasformato ben presto nel mare da solcare per cercare nuove terre dove vivere in modo meno stentato e con qualche speranza di una condizione migliore. Così la terra per la cui liberazione ci si era impegnati diventava una linea di orizzonte, con le sue lucine che scomparivano per lasciar posto non al mare dei giochi sperati, ma a quello minaccioso delle grandi onde che martellavano le fiancate della nave che portava lontano… E poi ancora racconti di nuove fughe frettolose per sfuggire a nuovi disordini, nuove lotte e nuove privazioni; e ancora difficoltà al ritorno in patria, non sempre così disponibile e ospitale per chi aveva tentato la fortuna altrove. Ricordi di vite avvolte come in un loop inesorabile, incapace di dischiudersi verso nuovi orizzonti di speranza. Vicende, per certi aspetti, ancora terribilmente attuali.
Nell’ascoltarle, nel riflettere, ho pensato che anche il mio scrivere si inserisce, consciamente e inconsciamente, in questo flusso di storie e in qualche modo le rappresenta. Sono tante e di vario segno le vicende narrate nei miei romanzi, ma credo che emergano sempre visibili venature di speranza, anche quando le storie sono drammatiche e hanno aspetti perfino tragici. La speranza della dignità di pochi, forse, che si ingegna e lotta per emergere, come nella quotidianità di ogni vicenda di difficoltà o conflitti. La fatica del cercare giustizia insieme, utilizzando reti di rapporti semplici, che tuttavia costruiscono tanti “noi” che si danno coraggio e anche forza nelle piccole e grandi battaglie della quotidianità
Proprio in questi ultimi giorni sembriamo, tuttavia, esserci fatti carico più esplicitamente della nostra umanità in letargo. Ciò si è espresso in manifestazioni variegate e partecipate, secondo alcuni analisti, come non capitava più dal secolo scorso. Come se, contandoci in tanti e in luoghi diversi del mondo, ci fossimo visti e riconosciuti come “globalizzati”, questa volta, non dall’indifferenza ma, anzi, dalla voglia di far vedere che ci siamo, indignati, consapevoli e determinati.
I filosofi della politica e i pensatori in genere continuano a ricordarci come la guerra sia ˗ amaro paradosso ˗ una scelta più “facile” perché risponde a meccanismi rozzi e dinamiche di contrapposizione e negazione insite nelle parti meno evolute, più “infantili”, dell’animo umano. Molto più complesso e “adulto” il pensiero che costruisce la pace.
Per questo è tempo di riprendere a navigare: la nostra umanità attende storie vissute, testimonianze raccontate, immagini pensate, rappresentate ed evocate. E per questo mi riavvicino anch’io alla mia tastiera del computer, perché le parole possano essere scritte come nuovo racconto di resilienza e di proposta. Sono sicuro che non sarà una navigazione solitaria: abbiamo visto come tante barche e perfino barchette, piccole e coraggiose, possano suscitare attenzione e mobilitare le opinioni pubbliche. E dunque riprendiamo tutti a navigare: una navigazione non fine a se stessa, ma perché il niente non diventi la cifra delle nostre giornate e delle nostre speranze.
Buona fortuna a questa Flotilla coraggiosa di variegata umanità.
