Le ho viste per caso. Mentre il bus riprendeva la sua corsa, nella luce ormai del tramonto, ho abbassato lo sguardo e le ho viste, circondate da fogliame e piantine, proprio accanto alla palina della fermata nel percorso da Rivoli a Torino. Due fotografie di ragazzi, su un’unica lapide come quelle dei cimiteri, un sorriso gioioso e un po’ ingenuo: Boccali Osvaldo e Cigolini Giulio.

   Due dei tanti ventenni che in queste giornate prossime al 25 aprile ricevono il fiore rosso del partigiano delle associazioni Anpi o delle scuole e ci fanno ricordare episodi di coraggio, di speranza, di amicizia.

In questo caso di amicizia, soprattutto. Tornato a casa, mi sono informato sui brandelli di vita di questi ventenni: due ragazzi di una divisione partigiana, non in una missione speciale ma a Cascine Vica per ritirare da un tabaccaio amico un pacchetto di sale per sé e per gli amici della divisione. Mandati, dunque, a prendere il sale, bene prezioso per conservare quel poco di cibo che si poteva trovare e portare con sé.

Quello stesso sale che serviva come compenso per i delatori che segnalavano la presenza di partigiani. Di solito 1 Kg per ogni denunciato, 5 Kg quando la retata fruttava un arresto di massa. Chissà quanto sale ha ricevuto il delatore che ha segnalato la loro presenza, visto che sono stati uccisi da una pattuglia che era lì per loro e che su di loro ha svuotato tutto il caricatore dei fucili. Erano in quattro. Osvaldo si accascia al suolo, Giulio si attarda per soccorrerlo e dar tempo agli altri due di scappare. Ma è una bomba a mano a troncare le loro vite, proprio lì sul corso Francia, nel buio della sera nel novembre del ’44.

Già nel pomeriggio, andando a Rivoli e ancora in territorio di Torino, ero rimasto colpito dai lunghi elenchi di nomi sulle lapidi presenti sui caseggiati di un tempo o riposizionate su quelli di oggi. Lunghi elenchi di nomi di giovani che hanno sperato di costruire un Paese migliore. Un ripasso della geografia partigiana della città.

Ho fatto quella strada, corso Francia, per andare a presentare il mio Fronte Sud. Quegli elenchi di nomi di ragazzi hanno come scortato il mio cammino, all’andata e al ritorno. In un certo senso lo hanno motivato ulteriormente.

Ho avuto modo di parlare di altri giovani che invece, illusoriamente, erano stati arruolati “per far grande l’Italia, conquistare l’impero in Africa”, anche se più che farlo grande sono stati coinvolti in uno dei più terribili massacri della storia delle conquiste coloniali. Qualcuno di loro ha preso coscienza di questa “impresa”, altri ne sono rimasti turbati ma non ne hanno più fatto parola, altri hanno continuato a vagheggiare il posto al sole che avrebbe fatta grande l’Italia, al pari delle altre grandi potenze.

I nomi di quelle lapidi, al contrario, hanno scelto di far sì che noi potessimo davvero dire “mai più” a tentazioni di conquista e al culto della forza. Lezione, purtroppo, non appresa del tutto e che ora sembrerebbe, in alcuni momenti del nostro presente, addirittura sconfessata.

Un motivo per cui ho scritto Fronte Sud, un messaggio di riparazione nei confronti del passato, ma anche un moto di speranza verso un futuro differente, staccandosi da un oggi che spesso dimentica quei nomi e quelle scelte. Scelte difficili, che anche oggi sono da fare. Ne sono consapevoli le persone dai capelli bianchi che durante le mie presentazioni si sentono coinvolte e aggiungono col racconto un pezzo della loro storia.

Questa volta, però, ho visto anche ragazzi consapevoli: in una scuola la voglia di capire e di fare, da parte di studenti che si erano coinvolti nella lettura di Fronte Sud e si erano impegnati anche a commentarlo con gli strumenti a loro congeniali: video, suoni, immagini. Ragazzi capaci di stupirsi e ascoltare le voci di un passato che sembrerebbe non coinvolgerli ma che in qualche modo li ha ancora toccati. L’ho visto nei loro occhi attenti, nelle domande essenziali, nella voglia di capire. La memoria operosa è un lavoro molto faticoso, come ben sanno gli insegnanti che da anni si impegnano in questo tipo di percorsi.

Una memoria che sa come sa di sale il cammino dei giusti di ieri e di oggi.

Lavorando e sperando, fortemente e intensamente, che non compaiano più volti sorridenti di adolescenti sulle lapidi alle fermate degli autobus, tra l’indifferenza, per lo più inevitabile, dei passeggeri in attesa. Mai più, davvero. Glielo dobbiamo, non solo ricordando il 25 aprile.