Il ritorno in città non è mai cosa semplice. Si patisce il cambio di clima, l’abbandono del contatto con la natura, l’improvvisa assenza di quegli spazi ambientali e psicologici che hanno consentito di pensare (o di tentare di farlo), una volta tanto, senza la pressione del tempo che passa o degli impegni da affrontare.

Quest’anno in particolare, anche se abbiamo cercato di tenerli a bada prima, tanti argomenti abitano la nostra mente al ritorno a casa. Tante le immagini che si affollano, quasi sovrapponendosi, della nostra estate e dell’estate dei fatti del mondo. Certamente qualcuna di esse ci pesa particolarmente sul cuore e interpella le nostre intenzioni di impegno di oggi e di domani.

Quel bambino passato di mano in mano e proteso con sforzo verso un soldato armato di tutto punto, sopra un muro e sopra un filo spinato, non può restare, dentro di noi, un’immagine puramente iconica del dramma vissuto dall’Afghanistan, precipitato ad agosto. Troppe mani di madri e padri, nella storia, hanno proteso figli verso l’altrove, ignoto e inquietante, pur di sottrarli alla tragedia sicura del presente.

Ma verso quale altrove? Con quali offerte di futuro e possibilità di dignità? Quante volte ci siamo limitati, come fanno spesso anche i governi come strategia politica, a spostare il problema un po’ più in là, tanto per non perderlo di vista, ma nello stesso tempo non averlo proprio davanti agli occhi?

In mezzo agli sviluppi di una pandemia che si fatica ad affrontare (al di là dei casi di rifiuto) con la sinergia globale che sarebbe richiesta per un virus che non fa distinzioni di continenti, ancora per molti aspetti imprevedibile nei suoi sviluppi futuri, il mondo si rende più fragile con le sue guerre, i suoi innumerevoli conflitti, le sue sempre inarrestabili conquiste di potere.

Anche nel nostro quotidiano non siamo da meno. Purtroppo il conflitto sociale ad agosto si è ulteriormente appesantito, si sono costruiti tanti rivoli di contrapposizioni e le sigle che cercano di identificarlo e classificarlo si stanno moltiplicando ulteriormente. Forse abbiamo una sorta di bisogno di contrapporci, con articoli, dibattiti e interventi: per non cedere all’ansia, spostando la contrarietà sulla contesa e non sulla situazione che stiamo vivendo.

Credo, peraltro, che non dovremmo perdere di vista orizzonti più ampi. I Paesi che non possono permettersi cure sanitarie o strumenti di profilassi saranno solamente affidati agli organismi internazionali e alle associazioni che stanno raccogliendo medicamenti e fondi per far affrontare ai più deboli la pandemia?  Lo scorrere dei giorni di questa strana normalità “sotto condizione” potrà ancora a lungo rimuovere questo scenario globale di inferiorità e anche di sfruttamenti economici?

Grandi problemi, certo non risolvibili dai singoli … Ma se imparassimo a chiedere ai media più informazione qualificata proprio in questi settori? Alcune firme autorevoli (penso, in particolare, a Domenico Quirico, su “La Stampa”) hanno descritto la situazione in questo periodo, a volte anche spiazzandoci per la crudezza dell’analisi. Dovremmo cercare di non farle tacere dentro di noi e di promuovere approfondimenti senza farci distrarre troppo dal nostro quotidiano, senza metterli “in seconda serata” anche nella nostra mente, come nei palinsesti televisivi. Forse è ancora troppo poco, ma dovrebbe almeno servire a zittire un po’ i soliti mantra delle contese quotidiane.

Che poi fanno venire in mente Leopardi e La ginestra, studiata negli ultimi anni di scuola: “… in sul più vivo incalzar degli assalti, gli inimici obliando, acerbe gare imprender con gli amici e sparger fuga con brando infra i propri guerrieri” …

Ecco, tornando a casa bisognerebbe proprio tornare tutti a ricominciare a studiare e a prendere posizione. Sarebbe ora, è già tardi.