In certi momenti storici sembra impossibile affrontare i discorsi relativi alla quotidianità, sommersi come siamo da eventi eccezionali come le azioni di terrorismo, gli eventi bellici e le violenze di ogni tipo, in parti del mondo a noi molto vicine o proprio da noi, nelle nostre città.

Eppure anche la quotidianità, a seconda di come viene affrontata, può servire a far decantare vecchie e nuove aggressività e a prospettare azioni più costruttive. Molte situazioni, prese di posizione o scelte politiche, però, si determinano spesso quasi nell’indifferenza collettiva, forse per una informazione incompleta o forse perché, pressati da bisogni materiali sempre più impellenti, non ne percepiamo a fondo le conseguenze. O forse i beni collettivi di cittadinanza sono divenuti entità così impalpabili da passare in secondo piano.

Negli scorsi mesi estivi, a volte particolarmente infuocati, sono stati affrontati tantissimi discorsi che riguardano i minori. Minori “nostrani”, apparentemente sempre più coinvolti in episodi di devianza per bande, minori stranieri, soprattutto quelli che arrivano sulle nostre coste in maniera clandestina, minori spesso “non accompagnati” che richiederebbero tutele particolari per non essere lasciati in mano alla criminalità che in qualche modo li “accoglie”, ma per inserirli nei propri quadri e secondo i propri interessi. Minori sopravvissuti a naufragi, minori profughi da guerre, minori vittime di disagi psichici sempre più diffusi e spesso poco documentati.

A fianco di questi temi di realtà sono riapparsi i temi delle grandi scelte pedagogiche ed educative, si è tornati a discutere se per “raddrizzare” le devianze occorra intimorire con la minaccia di interventi sanzionatori più severi, con misure di restrizione della libertà personale e limitazione di contatti col mondo, persino con la proposta di sequestro del cellulare … Cellulare che rappresenta ormai per giovani e adulti una specie di protesi aggiuntiva di ogni mano, presente come è in ogni dove. Anche per gli anziani, che vi cercano i messaggi rassicuranti dei famigliari o le indicazioni più urgenti per affrontare la giornata, compresi gli orari o i biglietti del tram.

È emersa, in genere, la teoria dell’efficacia del ritorno alle punizioni, che un certo buonismo poco responsabile e poco attento negli ultimi anni avrebbe preteso di sostituire con interventi alternativi, ma con esiti deleteri sotto gli occhi di tutti. Insomma, la riproposta quasi del “Sorvegliare e punire”, il titolo -bersaglio delle nuove pedagogie dagli anni 70 in poi. A volte un ritorno, proclamato con il beneplacito delle nuove scienze, come le neuroscienze, interessate ai mediatori chimici riscontrabili a livello cerebrale nelle devianze, che richiederebbero interventi di contenimento repressivo per attivare risposte neurochimiche di segno opposto (anche qui con dibattiti interpretativi tra gli esperti). Una strategia punitiva utile non solo sul piano educativo e che secondo quest’ottica sarebbe da riesaminare e proporre anche per governare il vivere civile.

Inevitabile conseguenza: l’irrigidimento delle scelte legislative, che tuttavia non possono andare contro i principi del diritto e delle tutele internazionali, come a volte sostiene qualche giudice, disattendendone l’applicazione per violazione di diritti sanciti a livello internazionale.

Cosa c’entra con tutto questo il buon Salvatore Malavoglia, sostituto procuratore minorile e protagonista o coprotagonista dei miei tre romanzi?

Malavoglia è ancora un’altra cosa. Lui deve innanzi tutto sentirsi a posto con se stesso, per aver abbracciato una professione che lo mette sempre in contatto con qualcuno che è vittima o con qualcuno che, pur essendo vittima, diventa a sua volta carnefice per tentare di dare una svolta alla propria storia. Malavoglia non può fare a meno di sentirsi parte attiva rispetto a una giustizia concreta, ovviamente differente a seconda delle situazioni di partenza di ciascuno e dei singoli bisogni. Non pensa prioritariamente a come mandare avanti il fascicolo ma, guardando soprattutto alle persone che ci sono dentro, cerca a suo modo (talvolta con errori, da cui non è certo esente) di attivare sinergie per creare una rete di sostegno sociale che restituisca quel tanto di dignità necessario per poter compiere delle scelte convinte e significative.

E con questa strategia mette anche a repentaglio la tranquillità degli affetti che a fatica si è ritagliato. Malavoglia è così, sempre alla ricerca dei cani perduti senza collare. Pensa che ciascuno di noi, magistrato o non, non può restare indifferente: soprattutto quando una presa di coscienza collettiva consentirebbe di riparare almeno moralmente a torti inferti anche da scelte del passato, condivise dai più.

Non penso proprio che Malavoglia si sentirebbe di continuare a incarnare un certo ruolo istituzionale in una società che sembra tornare indietro di più di trent’anni, ignorando o sconfessando le conquiste pedagogiche che sembravano condivise e in base alle quali sono state compiute esperienze positive: non solo di recupero delle devianze ma anche di sensibilizzazione alla necessità di un maggior coinvolgimento di cittadinanza. Oppure quando attività e procedure, forse ultimamente poco citate, ma da tempo esistenti, vengono ora proposte come scoperte nuove, come nuove scommesse da sperimentare, rivendicando il coraggio di queste scelte innovative. Ovviamente avvolgendo nel silenzio le fatiche e i risultati di chi da decenni già le sperimentava.

No, in questo senso Malavoglia non è, e non sarebbe, un magistrato per tutte le stagioni.

Certo, senza essere all’interno di un ruolo istituzionale, continuerebbe a cercare i suoi cani perduti senza collare, magari portandoseli a casa, parlandoci, ricevendone in cambio riconoscenza o, chissà, tradimenti. Continuerebbe a vivere nella quotidianità il suo particolare modo di essere un cittadino convinto che la giustizia non passa dai grandi proclami di intenti, ma dall’attenzione condivisa di tanti.

Magari, per avere un po’ di attenzione su questi temi, si metterebbe, chissà, anche a scrivere romanzi …