Nei dibattiti in occasione delle presentazioni o, comunque, parlando del romanzo, ho notato che qualcuno, soprattutto fra gli addetti ai lavori giudiziari, tende ad accostare troppo Messa alla prova al mio, precedente, saggio sulla giustizia minorile, quasi che l’uno fosse il necessario sequel dell’altro. Credo che ciò sia legato a più fattori:
-a) la mia persona e la mia esperienza di lavoro in magistratura rischiano di connotarmi come scrittore, agli occhi di chi già le conosce, indipendentemente dal genere letterario, per cui anche un’opera di narrativa viene letta, anzitutto, come frutto di riflessioni scaturite da quell’esperienza.
-b) Messa alla prova contiene molti elementi di contesto e di location legati all’ambito giudiziario. I primattori si incontrano e, per buona parte della narrazione, si muovono in tale ambito (anche se l’intreccio di storie che è il fulcro del romanzo si sviluppa e si risolve, idealmente e concretamente, soprattutto extra moenia).
-c) l’aspirazione alla giustizia, peraltro nelle forme più varie, in termini istituzionali o sostanziali, è certamente uno dei temi di fondo del romanzo.
Ritengo, comunque, utile qualche parola in più, come del resto ho già fatto talvolta, a viva voce, presentando il romanzo.
L’idea di scrivere un romanzo è stata, in me, risalente. Intendo a molto prima del pensionamento (2014), dopo il quale la priorità è stata quella di mettere nero su bianco, nel saggio Giustizia e ingiustizia minorile, le riflessioni legate direttamente al mio lavoro; come la naturale ed effettiva conclusione di esso, un punto fermo rispetto all’esperienza “in diretta”, in vista di un coinvolgimento che sarebbe proseguito in forme necessariamente diverse e meno pressanti. Il pressing era stato tale che, lavorando, non sarei riuscito a condurre in porto né un saggio né, tanto meno, un romanzo.
Alcuni pensionati si dedicano ai viaggi e all’ hobbistica; io, dopo la pubblicazione e le presentazioni del saggio, ho ripescato dal cassetto, e soprattutto nella testa e nel cuore, quella vecchia idea di una storia e mi sono messo alla prova scrivendo un’opera di un genere per me nuovo, che certo non poteva prescindere dalla mia esperienza giudiziaria, durata oltre 36 anni (di cui quasi un quarto di secolo in ambito minorile). I temi che mi sono cari e a cui, nel mio piccolo, mi dedico tuttora come cittadino ˗ come quelli di un giustizia, istituzionale e non, più autenticamente realizzata e di una maggiore vicinanza del Palazzo rispetto alla gente ˗ non potevano rimanere estranei al mio pensiero e alla mia scrittura. Certo non potevano non comparire, nel mio tentativo di “affresco sociale”, proprio quel mondo di cui mi sono occupato per tanti anni e quelle sofferenze tra cui mi sono mosso, spero anche con umanità, oltre che adeguatezza professionale.
Tuttavia Messa alla prova è qualcosa di ben diverso, tanto che non lo ritengo nemmeno un romanzo giudiziario; tanto meno a tesi, meno che mai un pamphlet. La messa alla prova processuale è sicuramente uno spunto-base; ma non è l’unico ed essere messo alla prova è esperienza esistenziale di ciascuno di noi, ad ogni età. Nel romanzo, infatti, la messa alla prova, nel senso più ampio e anche suggestivo del termine, coinvolge in qualche modo tutti, ragazzi e adulti, volenti o nolenti, consapevoli o meno. Nel quotidiano più o meno complicato delle storie individuali e delle relazioni con gli altri e con le istituzioni, si scopre la necessità di mettersi in gioco e di cambiare anche punto di vista, se si cerca di realizzare più compiutamente la propria umanità. Diversamente, si sceglie, consapevolmente o nei fatti, di rimanere sulle proprie posizioni, dovendo comunque fare i conti con qualcosa di immanente per tutti.
A chi solleva qualche obiezione sul fatto che nel romanzo non sempre le istituzioni presentano il loro volto migliore, rispondo dicendo che nella realtà della vita purtroppo è così; non sempre per specifica colpa di qualcuno, ma per una serie concatenata di cause e concause, tra cui, certamente, non è escluso il “fattore umano”. Ritengo, infatti, che per il servizio alle persone svolto dalle istituzioni, in particolare da quella giudiziaria, minorile in primis, siano indispensabili una motivazione specifica, una specializzazione adeguata ed anche il mantenimento di un’ottica problematizzante, senza assiomi ma con tanta voglia di costruire insieme nuove dimostrazioni muovendo dalle reimpostazioni dei problemi legate alle dinamiche sociali.
Insomma, credo che le istituzioni abbiano il volto delle persone che dentro di esse si spendono, con tanti sforzi e, di solito, pochi strumenti, per riuscire a trattare ogni situazione nel modo più adeguato, pur con la consapevolezza che, talvolta, non resta che cercare la soluzione meno dannosa per quel caso.
I protagonisti del romanzo non sono affatto perfetti, anzi hanno tutti tanti problemi, che cercano di risolvere a volte male, altre malissimo, altre benino o bene; ma che, almeno coscientemente, non cercano di rimuovere. Non sono certo personaggi modello o eroi senza macchia e senza paura, ma si “sporcano le mani” e guardano alle situazioni anche con gli occhi delle persone che incontrano, dentro e fuori le sedi istituzionali.
Il romanzo vuole suggerire una “morale della favola”? Credo che, come usa oggi in ogni genere di fiction, il finale sia molto “aperto” a ogni possibile ulteriore novità e cambiamento; senza trascurare che per morale della favola si può anche intendere la speranza nella concreta possibilità di diventare davvero persone migliori, grazie a relazioni più autentiche con gli altri (che certamente migliorano anche le motivazioni delle nostre prestazioni professionali).
Certamente i personaggi del romanzo che hanno coltivato quella speranza alla fine sono cambiati tutti, in meglio. L’adolescente Vito, che, sottoposto anche alla prova processuale, aveva più di tutti aveva il compito di farlo; ma anche tutti gli adulti, grazie anche -se non, a volte, soprattutto- allo spirito di iniziativa delle donne in cui si imbattono o alle emozioni che dalle donne muovono e a volte alle donne ritornano per rendere tutti persone migliori.
Cerco di immaginare se anche Gianrico Carofiglio (scusate l’ardire del paragone, ma tento solo di farmi capire) abbia subito diffidenze od osservazioni dal mondo da cui proveniva, viste le ambientazioni dei suoi romanzi legati alla figura dell’avvocato Guerrieri … Certamente, leggendo alcune descrizioni dei magistrati e del loro operato presenti nei suoi gialli, molti avrebbero potuto avere motivo di perplessità, risentimento o quantomeno obiezioni. “Partiva dalla realtà del suo ambiente?” “Chi era rappresentato? ’” “Perché le donne non sono mai state presentate negativamente?” … Domande che probabilmente gli sono state poste, ma le avventure dell’avvocato Guerrieri hanno continuato a dipanarsi a lungo, fino a La regola dell’equilibrio; certo non “dolce” o pacata nella rappresentazione di pensieri e azioni di alcuni uomini delle istituzioni, ma grande tributo alla ricerca di verità e di una giustizia giusta, che poi dovrebbe essere compito quotidiano per ognuno di noi.
E così siamo tornati al punto iniziale del discorso: le narrazioni, quando si sforzano di essere narrazioni di vita, sono anche un modo per testimoniare questo sforzo. Descrivere, anche in una fiction, qualcosa che non va o potrebbe andare meglio grazie agli uomini che vivono dentro un’istituzione, penso sia segno di grande affezione per quell’ istituzione, ma soprattutto testimoni lo sforzo di provare ancora simpatia e fiducia per la nostra umanità malata, sempre più autocentrata e immersa in orizzonti chiusi, nonostante le sicurezze dei proclami, “social” e no, dei nostri giorni.