Sabato 26 febbraio “La Stampa” ha dedicato due pagine agli interventi di scrittrici (Valeria Parrella, Viola Ardone) e scrittori (Giorgio Vasta, Maurizio Maggiani) sul tema della guerra in Ucraina. Mi ha colpito il fatto che la maggior parte di loro si sia descritta quasi come impreparata di fronte alle immagini e al trauma emotivo della guerra. Quell’esperienza l’aveva vissuta sulla propria pelle la generazione dei nonni e, indirettamente, quella dei loro figli (“una generazione di mezzo che è ancora viva in parte, sono i nostri genitori”). Chi è venuto dopo (“Noi siamo quelli che sono venuti dopo”) sembra non potersi sottrarre allo sgomento e al turbinio delle emozioni suscitate dal massiccio insieme di immagini e di voci così intense e ravvicinate, provenienti da uno scenario bellico reale e da popolazioni prese in mezzo a un conflitto sul suolo europeo. L’opposta enunciazione del solo Maggiani (“No, non provo nessuna particolare emozione, nessuno sdegno suppletivo…”) è, nel contesto di un intervento che mi sembra, nel merito, il più condivisibile, fin troppo marcata e netta per non apparire provocatoria. In sostanza: a queste emozioni dovremmo essere ormai assuefatti.

Su questi spunti svolgo qualche breve riflessione, da lettore di quella “generazione di mezzo”, nato cinque anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, da genitori a cui, come per tutti in quegli anni, la guerra non aveva risparmiato le sue asprezze.

Le immagini “di guerra”, nel senso di innumerevoli conflitti in ogni parte del mondo non esclusa l’Europa, sono state, nei vari decenni trascorsi da allora, una costante, alimentata non solo dalle memorie di genitori e altri prossimi congiunti ma anche e soprattutto dalla realtà del ricorso alla violenza degli apparati bellici: i carri armati sovietici a Praga nel ’68 (e già a Budapest nel ’56), i conflitti che negli anni ’90 insanguinarono vari Sati della ex Jugoslavia quali la Croazia, la Serbia e la Bosnia (diranno pur qualcosa, ancora, i nomi di Sarajevo, Mostar, Srebrenica), la guerra per il Kossovo e la stessa contesa fra Russia e Ucraina nella sua prima sortita bellica. Quella che, nel 2014, riguardò la Crimea e lo stesso Donbass e che è proseguita in forma strisciante, ma causando circa 14.000 morti, fino all’attuale aggressione russa. Il tutto per non parlare della Cecenia e delle ricorrenti ostilità fra Armenia e Azerbaigian.

Avendo presente tutto ciò, colpisce e stupisce leggere, per il post conflitto mondiale e guerra fredda, di “… velata certezza che noi mai più in Europa avremmo avuto una guerra calda, con colpi di fucile, sirene nella notte, facciate di palazzi crollate, tetti sfondati, notti di bombe, urla di civili, eserciti al fronte” e che “fino a qualche mese fa bombe e bombardamenti sono stati per me qualcosa che esiste soltanto nell’informazione e nella messinscena narrativa”. Preso atto, comunque, di tali affermazioni (in significativo contrasto con quelle di Maggiani, guarda caso meno giovane e prossimo anagraficamente alla “generazione di mezzo”), mi sembra che vadano svolte almeno un paio di considerazioni.

La prima muove dal fatto che la cultura della pace e (art.11 della nostra Costituzione) del “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” non è qualcosa che possa funzionare a corrente alternata, a seconda degli scenari geografici e di mutevoli criteri di opportunità (i “giri di valzer” di cui leggevamo nei manuali scolastici).

Conoscevamo tutti, da molti anni, le caratteristiche della Russia “di Putin”, così come abbiamo conosciuto e conosciamo quelle, non dissimili nella sostanza, di non pochi altri Stati, nei più vari scacchieri del mondo (e anche più vicino a noi). L’unico modo per tentare di prevenire o almeno contrastare tragedie come quella attuale in Ucraina non può che passare per una serie di scelte coerenti sul piano dei rapporti internazionali, compresi ovviamente quelli economici e commerciali. Come cittadino, ciascuno di noi, quali che ne siano età, cultura e posizione sociale, dovrebbe avere sempre ben presente la realtà della guerra: non per la sua immagine disturbante, da rimuovere o dimenticare, ma come male contro il quale non va mai dismessa la mobilitazione. Anzitutto sul piano della vigilanza, della memoria e della circolazione delle idee e della solidarietà. Questione che non può non coinvolgere a fondo anche gli scrittori

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Con il che passo al secondo punto e alla conclusione. Ogni persona, così come ogni generazione, è più sensibile a certi temi, problemi, miti. Ma nei libri e nelle letterature sono rappresentati tutti e per chi legge è come vivere più vite (Eco). Credo, quindi, che la scrittura sia essenziale anche quale veicolo di trasmissione di storie, emozioni e riflessioni sul tema della guerra, purtroppo una costante nella vicenda umana. Sì che nessuno, “al di qua o al di là della pagina” (quindi scrittore o lettore), finisca per farsi trovare, pur nello sconcerto e nel dolore che ci pervadono, quasi disarmato di fronte alla guerra quando essa, maledettamente, alza o rialza la testa. Le armi della cultura e della consapevolezza sono quelle che tutti possiamo e dobbiamo usare a testa alta.

 

 

A inizio gennaio una nostra amica ha sfidato il freddo per andare a Berlino a trovare il figlio, da tempo studente in quella città. Nella sua prima telefonata, la sera stessa dell’arrivo, oltre alla gioia di averlo rivisto, ci ha subito comunicato che sarebbe andata a comprare qualcosa per lucidare l’ottone, perché davanti al portone di casa aveva trovato ben otto “pietre di inciampo”, ricordo tangibile della deportazione di un’intera famiglia. Con l’avvicinarsi del Giorno della Memoria, desiderava che le targhette fossero ben lustre e visibili. Nei giorni successivi ci ha riferito di come questo ricordo, varcando il portone, si trasformasse quasi in un’evocazione fisica di quella famiglia, strappata da quella casa. Una tra le tante ricordate dalle pietre di inciampo a Berlino e in Europa (130 solo a Torino).

  L’idea che nel gelo del gennaio berlinese qualcuno investisse tempo e fatica a lucidare delle pietre di inciampo, proprio per far inciampare meglio l’attenzione dei passanti frettolosi, come monito permanente legato a quegli avvenimenti, mi ha fatto riflettere su come dovremmo essere capaci di attualizzare sempre quella ricorrenza. Il Giorno della Memoria, infatti, ha assunto negli anni una doppia connotazione: per alcuni un ricordo doveroso ma rituale (talvolta anche per le istituzioni), per altri un impegno sempre nuovo per il presente, una testimonianza di responsabilità. Tra questi ultimi, fortunatamente, molti educatori e giovani che organizzano attività di responsabilizzazione partendo da questo giorno.

Tuttavia già il termine responsabilità oggi non ha una connotazione univoca e deve essere spesso illustrato con attività di storytelling per poter essere attrattivo, degno di essere preso in considerazione. Una narrazione che deve anche fare i conti con il dibattito, da tempo aperto dalla storiografia, sulla contrapposizione tra memoria e storia; importante sul piano della metodologia, ma che viene, in realtà, spesso usato anche come digressivo o, ancor peggio, strumentalizzato a favore di una oggettività ancora da raggiungere. In questo caso non si intende l’auspicabile oggettività scientifica, ma piuttosto una rievocazione vicina ai canoni del politically correct.          

Non credo che sia la via giusta. Probabilmente dovremmo, al contrario, essere in grado di costruire nuove pietre di inciampo legate alle mille difficoltà della storia di oggi, capaci di aiutarci a superare rimozioni individuali e collettive, in grado almeno di risvegliare le coscienze a volte sopraffatte, a volte silenti. Per nulla facile, anche se viviamo in tempi in cui si sprecano e si esaltano metafore di tutti i tipi.

Non facile per noi, figuriamoci per i giovani. Sul loro cammino ci sono tanti inciampi veri e propri, non le nuove pietre d’inciampo di cui avremmo bisogno. Inciampo, per esempio, lo spettacolo della politica durante le recenti elezioni del presidente della Repubblica, ampiamente commentate in lungo e in largo dai media, con lo stesso stile e la stessa tempistica con cui si commentano le mosse dei giocatori e delle squadre alle partite di ammissione alle finali dei mondiali. Oppure inciampo anche il salotto televisivo che, per una intera serata, disquisisce sul fatto che il presidente in pectore non può mai essere il personaggio più degno o più meritevole, ma deve essere, invece, solo il più adatto ad essere accettato dalle varie mediazioni politiche.  Realismo politico? Provate a chiedere ai giovani il loro commento in merito …

Fortunatamente per i media e per il morale della nazione la conciliazione tra generazioni si è attuata, però, già qualche giorno dopo, teorizzata in una conferenza stampa in cui il conduttore di Sanremo magnificava l’idea di aver collocato in gara insieme tutti i generi musicali e cantanti di tutte le età, legati dalla “adrenalina della gara”. Unità nella diversità, con il televoto giudice sovrano, con gli artisti più anziani già contenti “per essere stati ammessi”.  Anche questa una metafora di politically correct o addirittura proprio della attuale democrazia?

In effetti, come hanno notato molti esperti, intendersi sul significato delle parole legate alla vita civile e politica è sempre più difficile perché ciò a cui le parole rimandano è molto diversificato nei vari ambiti sociali. Un esempio evidente è l’uso della parola libertà in questi ultimi due anni di pandemia, con interpretazioni a volte opposte. Un uso che contrappone ideologicamente il termine individuo al termine persona, una visione di libertà focalizzata sul singolo e un’altra legata alle relazioni di comunità e di società civile che costituiscono l’identità della persona.

Forse è proprio necessario cercare di ricostruire un lessico comune, almeno per capirsi, se non per accordarsi. Ma per far questo bisogna mettere in campo molte componenti: conoscenza, onestà intellettuale, ma anche tanta intelligenza emotiva. Se è vero che spesso si inseguono effetti emotivi con ogni tipo di comunicazione, è altrettanto vero che non si dedica molta cura a ricavarne conoscenza e comprensione; nemmeno si cerca di passare dall’emozione al sentimento, presupposto necessario delle motivazioni e dei convincimenti morali.

Chi da sempre lavora con i giovani sa che un metodo efficace per motivare deve far leva sulla capacità di suscitare comprensione empatica, arma che aiuta spesso a sottrarsi alla tirannia di troppo ingombranti.  Già l’io, il , altri inciampi non da poco.

Ma non scoraggiamoci: importante è continuare a guardarsi attorno, cogliere dei segni capaci di costituire senso di comunità e voglia di testimonianza. Importante è che ci sia sempre qualcuno disponibile a lucidare le targhette delle pietre di inciampo, per capire e segnalare in questo modo quali, invece, siano i nostri quotidiani inciampi da rimuovere.

Ritengo opportuno mettere su questo sito la lettera pubblicata nei giorni scorsi dal Comitato che si oppone all’iniziativa della Giunta Regionale piemontese denominata “allontanamento zero”; questione su cui scrissi nel febbraio 2020 per “Questione Giustizia”.

Carissim*,

il giorno 10 gennaio 2022 è ripresa la discussione in IV commissione consiliare sul DDLR “Allontanamento zero”, proposto dalla giunta regionale. 

L’opposizione ha presentato oltre 200 proposte di emendamento; con tutta probabilità però il DDLR n. 64 verrà portato in Aula e approvato a breve, anche nelle prossime settimane.

Nella sua forma attuale, anche con le poche modifiche e integrazioni introdotte,  resta identico nella sostanza e fortemente pericoloso per i diritti dei minori, specie per l’ideologia da cui nasce e si sviluppa. 

Continua ad essere un disegno di legge:

–          nato per rispondere ad un problema che non esiste (in Piemonte 60.000 minori sono seguiti a casa loro);

–          con scopi di mera propaganda su un tema poco noto e che attiva però la partecipazione emotiva delle persone;

–          fondato su un’idea della famiglia, in cui prevalgono i legami di sangue sul benessere delle persone e il diritto degli adulti su quello dei minori;

–           pieno di dispositivi inattuabili perché a costo zero (per aiutare davvero le famiglie e i minori sono necessari investimenti nel settore sociale e sanitario e non un trasferimento di fondi da una parte all’altra del bilancio rischiando di lasciare scoperti altri settori!);

–          centrato sulla convinzione che sia sufficiente fornire un contributo economico per risolvere problemi gravi delle famiglie (le dipendenze si risolvono con un contributo? La violenza si elimina con del denaro? Il maltrattamento si cancella con un reddito aggiuntivo?).

Riteniamo dunque importante far sentire nuovamente la nostra voce, nonostante il periodo complesso. Vi proponiamo un’iniziativa comune.

Abbiamo preparato delle “cartoline” (allegate a questa email) che sintetizzano il nostro pensiero rispetto al disegno di legge.  Potete inviarne solo una o tutte, come preferite.

Invitiamo  tutti coloro che condividono questa iniziativa a sostegno della tutela dei diritti dei minori e del loro benessere  di inviarle dai loro indirizzi di posta personali agli indirizzi di posta elettronica del consiglio regionale del  Presidente della Giunta regionale Alberto Cirio (alberto.cirio@cr.piemonte.it) e del Presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia  (stefano.allasia@cr.piemonte.itnei giorni 20 e 21 gennaio p.v. 

Inoltrate  questa lettera  alle vostre mailing list private, alle  vostre associazioni, agli  ordini di appartenenza, perché le diverse posizioni contrarie a tale disegno di legge possano emergere e arrivare in Regione, come era accaduto nel gennaio 2020.

Il Comitato Zero Allontanamento Zero

Antonio Attinà (Presidente Ordine Assistenti Sociali Piemonte)

Anna Maria Colella (esperta di diritto minorile)

Manuela Olia (Docente di Organizzazione dei servizi sociali presso Uniupo, Consigliera comunale del Comune di Chieri)

Assunta Confente (avvocata)

Laura Onofri (Presidente SeNonOraQuando?)

Elena Petrosino e Francesca Delaude (CGIL, Cisl, Uil Torino)

Carla Quaglino (Casa delle donne di Torino)

Paola Ricchiardi (docente di Pedagogia Sperimentale, Università di Torino)

Daniela Simone (Assistente sociale, Consigliera Ordine Assistenti Sociali Piemonte-2014-2022)

Frida Tonizzo (Presidente Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie)

Rita Turino (Garante dell’infanzia e dell’adolescenza-Regione Piemonte dal 2016 al 2019)

 

Lunedì 17 gennaio 2022

 

 

 

 

Mai come in questi ultimi mesi sono di moda i filosofi. Compaiono ovunque, sui giornali, nei dibattiti e persino nelle serie televisive di successo. Animano discussioni, muovono critiche, dissertano su tutto … Forse è giusto così, se è vero che la filosofia è l’amore per la conoscenza, per ogni sapere. Tuttavia è lecito alla filosofia dissertare su argomenti diversi da quelli del proprio campo consueto, con metodo non tradizionalmente argomentativo ma neppure scientifico?  I filosofi della scienza, poi, avrebbero molto da dire circa le differenze tra metodo scientifico e argomentazioni filosofiche …

In alcuni casi, però, si ha l’impressione che si stia tentando di rendere anche la filosofia argomento accessibile per le quattro chiacchiere quotidiane, di proporla come disciplina autonoma polivalente, più che come ambito di riflessione, ricerca di metodo e proposta di quesiti di approfondimento. Tutto è stato scatenato a partire dalla variante o, omicron con il nome dell’alfabeto greco, rispolverato per l’occasione perché chiamarlo con il nome della regione di provenienza, come si è fatto fino alla variante inglese, non seguirebbe la regola del politically correct.

Che cos’è omicron? Una variante del virus che ci assedia, ancor più pericolosa? Più contagiosa? Nata come effetto dovuto alla diffusione tra persone che avevano già problemi di immunodeficienza? Non si sa, la scienza chiede tempo per rispondere. L’analisi dei fatti e il confronto dei dati devono procedere nel tempo.

Intanto dalla memoria dei miei coetanei riemerge un film di Gregoretti, degli anni ’60, intitolato per l’appunto Omicron. Era ambientato a Torino, protagonista l’alieno Omicron che si impadroniva del corpo di un operaio, trovato apparentemente morto, per inserirsi nel mondo umano del lavoro e, tramite il conformismo e il boicottaggio degli scioperi, guidare la conquista del pianeta Terra da parte degli alieni. Una efficace parodia della fantascienza e dei mondi distopici di allora, popolati da invasioni aliene; nello stesso tempo una metafora della società del boom economico, tra lotte operaie e sviluppi incontrollati del capitalismo industriale, nella città simbolo della grande industria.

Noi oggi, invece, da quasi due anni viviamo con quella che percepiamo come una invasione contro le nostre abitudini, operata da un virus sconosciuto, di provenienza dubbia, per qualcuno addirittura alleato dei poteri forti, schierati contro il nostro mondo e le nostre piccole, presunte, libertà per renderci docili e succubi. Eppure i virus sono gli abitanti più longevi della terra, quelli più diffusi da millenni, che, tramite salti di specie, da sempre si moltiplicano o mutano, portando mutamenti di vita intorno a loro e, a loro modo, forse anche contribuendo ai cambiamenti delle società. E se gli alieni fossimo noi, che non riusciamo ad accettare la realtà di essere ospiti nel nostro mondo come tante altre realtà biologiche? E se omicron fossimo proprio noi, abitatori estranei e tutto sommato poco empatici rispetto all’ambiente che ci circonda? L’alfa e l’omega del mondo sono stati e saranno sempre popolati da virus e nuovi virus, specie se la realtà del cambiamento climatico proseguirà indisturbata.

Non c’è bisogno, però, di scomodare le lettere dell’alfa e dell’omega di tradizione religioso- apocalittica per capire che davvero tutto sta in quel segmento che le unisce e le separa, l’inizio e la fine della vita, nostra e del mondo … Tutto dipende dal modo in cui riempiamo di vita o togliamo vita all’ambiente che ci ospita, dal modo in cui diamo senso al nostro essere immersi in quel segmento dell’esistere, da quanto ci impegniamo insieme agli altri per un progetto comune. Ecco, ci sono cascato anch’io in riflessioni filosofeggianti (si fa per dire…). Che anche questa sia un’epidemia? (pandemia non direi ancora). E se quell’ o fosse solo una particella tra le infinite possibilità per farci pensare?

Non sarebbe una brutta malattia, a patto di saper adoperare i giusti metodi per i giusti contenuti, di rispettare le differenti competenze di analisi. Non una cosa da poco, di cui avremmo tanto bisogno. In fondo, nel film di Gregoretti anche Omicron, l’alieno “ospite” di un uomo, l’operaio Trabucco, prendeva coscienza della sua situazione innamorandosi di un’umana …

Sarebbe bello, anche per noi, acquistare, se non proprio amore, almeno un po’ più di rispetto del sapere, per riuscire nella nostra missione di uomini, sempre alla ricerca di risposte ma anche di domande. Domande da proporre e discutere con più umiltà, visto che di questo mondo non siamo i proprietari e nemmeno i principali coinquilini.

https://youtu.be/Aox6ogQ3ZDs

 

Dvorak pensava all’America, ma per noi il nuovo mondo deve ancora venire”: parole ascoltate direttamente dalla voce di Primo Levi, uscita dallo scrigno delle teche Rai, che hanno commentato l’esecuzione della Sinfonia dal Nuovo mondo. Il concerto, tenutosi alla vigilia dell’inaugurazione del Salone del libro di Torino 2021, è stato pensato come sottolineatura del titolo di esso, Vita Supernova; un titolo come augurio di rinnovamento, auspicato come rinascita, come nuovo mondo possibile, proposto attraverso l’arte e la cultura. Proposto, tuttavia, non solo ai visitatori, in attesa da due anni, ma a tutti, alla ricerca come siamo della tranquillità del prima, consapevoli – seppur confusamente – che il dopo non dovrebbe essere uguale, se davvero vogliamo realizzare una vita supernova.

Lo scrittore Javier Cercas, presente all’evento, ha ricordato come dopo l’epidemia di “spagnola”, dei primi del ’900, vi sia stata una fioritura di opere letterarie, alcune rimaste come capolavori indiscussi, quelli che tutti hanno letto e leggono.

Le proposte del Salone quest’anno sono state, come e più del solito, molto variegate. Vista l’accoglienza del pubblico, è emersa la prova che anche in un’era social come la nostra (in cui, in fondo, tutte le opere e gli autori sono raggiungibili con un clic) la comunicazione in presenza, la fisicità dei libri e il suono delle voci   sanno coagulare emozioni e suscitare sentimenti. Con l’aggiunta del piacere quasi fisico di fare qualcosa come prima.

Nel mio piccolo, anch’io sono stato coinvolto da questa Vita Supernova: cinque giorni di incontri, di contatti, anche di sorrisi, pur dietro le immancabili mascherine. Ho rivisto “la mia casa editrice”, nelle persone che l’hanno fondata o che ora la mandano avanti con tenacia nonostante le difficoltà del periodo e del mercato; così come gli amici e i conoscenti che sono venuti alla presentazione di Un anno strano, portando il loro sostegno.

Ho avuto anche la soddisfazione di ascoltare gli apprezzamenti di una scrittrice quale Margherita Oggero e le riflessioni sempre ricche (e messe alla prova nella realtà) di Franco Prina. Un ottimo bilancio, dunque, che spinge inevitabilmente a nuovo impegno. Quell’impegno di scrittura che è anche testimonianza, resa, come ho detto rispondendo a una domanda, anche mettendo a frutto immaginazione e fantasia. La cultura parla e trasforma, a patto di condividerla il più possibile, di farla “girare”, tra emozioni comunicate e altre condivise.

Le immagini del brevissimo video (v. link) tentano di testimoniare quell’atmosfera e, anche da parte mia, quelle speranze di continuità d’impegno verso un mondo nuovo. Anche, semplicemente, scrivendo romanzi.

Il ritorno in città non è mai cosa semplice. Si patisce il cambio di clima, l’abbandono del contatto con la natura, l’improvvisa assenza di quegli spazi ambientali e psicologici che hanno consentito di pensare (o di tentare di farlo), una volta tanto, senza la pressione del tempo che passa o degli impegni da affrontare.

Quest’anno in particolare, anche se abbiamo cercato di tenerli a bada prima, tanti argomenti abitano la nostra mente al ritorno a casa. Tante le immagini che si affollano, quasi sovrapponendosi, della nostra estate e dell’estate dei fatti del mondo. Certamente qualcuna di esse ci pesa particolarmente sul cuore e interpella le nostre intenzioni di impegno di oggi e di domani.

Quel bambino passato di mano in mano e proteso con sforzo verso un soldato armato di tutto punto, sopra un muro e sopra un filo spinato, non può restare, dentro di noi, un’immagine puramente iconica del dramma vissuto dall’Afghanistan, precipitato ad agosto. Troppe mani di madri e padri, nella storia, hanno proteso figli verso l’altrove, ignoto e inquietante, pur di sottrarli alla tragedia sicura del presente.

Ma verso quale altrove? Con quali offerte di futuro e possibilità di dignità? Quante volte ci siamo limitati, come fanno spesso anche i governi come strategia politica, a spostare il problema un po’ più in là, tanto per non perderlo di vista, ma nello stesso tempo non averlo proprio davanti agli occhi?

In mezzo agli sviluppi di una pandemia che si fatica ad affrontare (al di là dei casi di rifiuto) con la sinergia globale che sarebbe richiesta per un virus che non fa distinzioni di continenti, ancora per molti aspetti imprevedibile nei suoi sviluppi futuri, il mondo si rende più fragile con le sue guerre, i suoi innumerevoli conflitti, le sue sempre inarrestabili conquiste di potere.

Anche nel nostro quotidiano non siamo da meno. Purtroppo il conflitto sociale ad agosto si è ulteriormente appesantito, si sono costruiti tanti rivoli di contrapposizioni e le sigle che cercano di identificarlo e classificarlo si stanno moltiplicando ulteriormente. Forse abbiamo una sorta di bisogno di contrapporci, con articoli, dibattiti e interventi: per non cedere all’ansia, spostando la contrarietà sulla contesa e non sulla situazione che stiamo vivendo.

Credo, peraltro, che non dovremmo perdere di vista orizzonti più ampi. I Paesi che non possono permettersi cure sanitarie o strumenti di profilassi saranno solamente affidati agli organismi internazionali e alle associazioni che stanno raccogliendo medicamenti e fondi per far affrontare ai più deboli la pandemia?  Lo scorrere dei giorni di questa strana normalità “sotto condizione” potrà ancora a lungo rimuovere questo scenario globale di inferiorità e anche di sfruttamenti economici?

Grandi problemi, certo non risolvibili dai singoli … Ma se imparassimo a chiedere ai media più informazione qualificata proprio in questi settori? Alcune firme autorevoli (penso, in particolare, a Domenico Quirico, su “La Stampa”) hanno descritto la situazione in questo periodo, a volte anche spiazzandoci per la crudezza dell’analisi. Dovremmo cercare di non farle tacere dentro di noi e di promuovere approfondimenti senza farci distrarre troppo dal nostro quotidiano, senza metterli “in seconda serata” anche nella nostra mente, come nei palinsesti televisivi. Forse è ancora troppo poco, ma dovrebbe almeno servire a zittire un po’ i soliti mantra delle contese quotidiane.

Che poi fanno venire in mente Leopardi e La ginestra, studiata negli ultimi anni di scuola: “… in sul più vivo incalzar degli assalti, gli inimici obliando, acerbe gare imprender con gli amici e sparger fuga con brando infra i propri guerrieri” …

Ecco, tornando a casa bisognerebbe proprio tornare tutti a ricominciare a studiare e a prendere posizione. Sarebbe ora, è già tardi.

 

La voglia di vacanza è sempre più forte. Ed è ben comprensibile, dopo l’ansia di tanti mesi con notizie assai poco rassicuranti (e relative rimozioni), stili faticosi di rapporti di lavoro e di relazione, ansie e stress da notizie sanitarie e organizzazione della quotidianità.  Spesso la voglia di fare festa va, però, sopra le righe. Anche lasciando da parte (una volta si sarebbe detto per carità di patria) il rave party, in Toscana, di circa 6.000 persone che le forze dell’ordine non sono riuscite a disperdere nemmeno nel giro di molte ore, si moltiplicano episodi di ricerca di feste rumorose, con assembramenti per brindisi, grigliate, abbuffate varie, in città come nei luoghi di villeggiatura. Complici, sicuramente, i successi azzurri agli Europei di calcio, che ci mostrano tifosi di tutte le età, gaudenti dopo le partite, assembrarsi tra di loro e intorno/addosso ai malcapitati cronisti (specie se donne) sulle piazze italiane collegate in diretta.

Normale, vien da dire: voglia di gioia, anche un po’ isterica, dopo tanta ansia e tanto dolore. Ma… dopo?

Le notizie delle varianti, ora denominate con le lettere dell’alfabeto greco per il politically correct, sono incombenti, forse opprimenti nella loro inesorabilità, visto che anche in copertina alcuni giornali fanno notare che i dati dei contagi in Italia per ora non aumentano quasi, ma non diminuiscono più da giorni. Forse proprio per questo “chi vuol essere lieto sia, del diman non v’è certezza” …

Tuttavia, proprio in mezzo a questo clima festaiolo o che vorrebbe comunque mostrarsi tale, i fatti di cronaca ci riportano, anch’essi inesorabilmente, a vicende di disagi esistenziali e psicologici, a uccisioni di donne di ogni età, a omicidi di giovani e tra giovani, a suicidi per bullismo e persecuzioni per l’orientamento sessuale. Tutto mentre la politica coglie al balzo l’occasione per schierarsi, dichiarare, contrapporsi.

Come al solito, e non solo per deformazione professionale, sono soprattutto le vicende dei ragazzi ad attrarre la mia attenzione. Ne accenno qui con tutti i limiti legati ad indagini ancora, necessariamente, incomplete, semplicemente segnalando qualche aspetto che appare, forse suggestivamente, emblematico.

Le vittime: un ragazzo, Orlando, appena maggiorenne, suicida da un cavalcavia sui binari della ferrovia, e Chiara, la ragazza quasi sedicenne uccisa da un coetaneo che si dichiara posseduto dal demonio. Orlando viveva a Torino in un quartiere non lontano dal mio; Chiara in un luogo di campagna e prati, non lontano da Bologna. Ma bisogna considerare pure l’assassino di Chiara: anche lui un minore, da tempo con segni (e forse segnali) di disagio. Storie diverse, certo, ma forse conviene comunque accennarne in parallelo.

Orlando da tempo aveva dichiarato la sua omosessualità, forse anche un orientamento transgender: sui social si definiva “principesso” e con tale nome era conosciuto dai suoi amici. Tutto sommato, sembrava ben inserito a scuola, un istituto professionale, ma non era sereno e pare anche che ultimamente avesse paura di qualcuno. Era stato in passato vittima di bullismo per le sue scelte di abbigliamento e le sue esternazioni di omosessualità, secondo quanto ora dice la madre (che però viveva in Calabria, mentre lui era rimasto a Torino con il padre). La signora allude anche al fatto che Orlando era facilmente plagiabile e cercava consenso.

Anche Chiara parlava di sé sui social, accennava a generici malesseri in qualche relazione scolastica del passato e alludeva anche a qualche disagio presente, ma sembrava ben determinata a guardare al futuro e ad andare avanti. Il suo assassino (indichiamolo con X: è un indagato minorenne) aveva già fatto lavoretti vari nella zona, anche per il padre di Chiara; era piuttosto silenzioso, anche se a tratti aveva manifestato scatti di rabbia, e, come altri ragazzi (compresa la sua vittima), trascorreva i pomeriggi nel centro d’incontro di un paese vicino, fatto nascere perché i giovani avessero un punto di aggregazione da una mamma il cui figlio, vittima di bullismo, aveva perso la vita ancora adolescente. Ivi, riportano sempre le cronache, X trascorreva molto tempo a giocare a biliardino, da solo, rimuginando chissà cosa dentro di sé. Era conosciuto dai Servizi, il suo disagio era già emerso perché aveva avuto degli incontri con lo psicologo che poi aveva ritenuto opportuno far iniziare per lui un percorso terapeutico con un neuropsichiatra; percorso che, peraltro, non era ancora iniziato.

Non è certo questa la sede per un’analisi di storie esistenziali e psicologiche complesse e di cui, come già accennato, almeno noi sappiamo ancora troppo poco. Ma quel malessere che, in forme e con atteggiamenti molto diversi, ha poi condotto questi giovani a divenire protagonisti di tragedie, nei panni delle vittime per Orlando e Chiara e dell’assassino per X, sembra costituire un amarissimo risvolto della medaglia rispetto a quella che, nel contempo, è talvolta divenuta smania di divertimento “risarcitorio” di gruppo di tanti, a partire dagli adulti, in ogni area del paese.

Forse Orlando e Chiara percepivano delle fragilità e in qualche modo si atteggiavano per combatterle, Chiara tirando con l’arco e Orlando vestendosi griffato e cercando consenso per potersi sentire protetto almeno dal look. Forse X cercava identificazioni forti in personaggi delle serie televisive, dove il noir e il rosa convivono in storie di innamoramenti e potere. Intanto migliaia di altri giovani, sulle colline pisane, dopo quasi una settimana, continuano a restare assembrati nel tentativo di riprendere il rave party più volte interrotto. Forse per continuare, insieme nella trasgressione, a sentirsi vivi e ancora, almeno in gruppo, soggetti forti, che dettano le loro condizioni a restrizioni, norme e malattia.

Qualcuno ha parlato di rimozione del dolore, altri di incapacità di sopportare la sofferenza e l’ansia. Non solo i giovani, se dobbiamo far riferimento alle interviste alle signore e ai signori che, seduti al tavolino di un bar o assembrati nelle strade di saldi, dicono di sentirsi scorrere dentro, nuovamente, la vita e di essersi ripresi la libertà negata.

Non voglio aggiungere altre, superflue, riflessioni alle tante già fatte sull’incapacità di gestire l’ottica del noi e di un interesse collettivo; non voglio sottolineare ancora come queste vite “in libertà” siano spesso definite tali nel momento in cui consumano tempo, bibite, cibo, merci. Mi sembra, in fondo, a suo modo coerente l’assembrarsi giovanile come protesta per la mancata riapertura delle discoteche: un perfetto contraltare alla democrazia assicurata, secondo molti, dalla riapertura dei locali e dalla ripresa della vita notturna.

Alla vigilia delle vacanze, credo, però, che dovremmo proprio rifletterci su per capire, come adulti, da che parte vogliamo stare e chi vogliamo essere. Almeno non tacendo.

L’ottica del carpe diem (peraltro mal compreso) inevitabilmente lascia da parte tutti quelli che non trovano motivi e neanche l’attimo fuggente da celebrare; così per quei giovani fragili, legittimamente fragili nella loro adolescenza, che sono il nostro specchio e in noi si rispecchiano, con le loro tenere finzioni e le loro ricerche di affetto. Tanti ragazzi come loro ci circondano, ci sono vicini, con le loro sbruffonerie e i loro mutismi, la loro sofferenza camuffata: l’educazione che offre sistemi per creare sempre nuovi specchi per farli specchiare in noi (e forse piacersi) oggi ha mostrato tutti i suoi limiti. Rischiamo di affidarci e di affidarli solo a specchi deformanti. Che cosa d’altro abbiamo da offrire di noi a loro? Bisognerebbe prima di tutto cercarlo, questo altro …

Forse potremmo, “semplicemente”, avvalerci delle vacanze anche per conoscerci: ancora, più profondamente, in un certo senso nuovamente. Anche se non è facile …

 

 

 

Anche quest’anno, a causa della pandemia, il 25 aprile vedrà pochissime persone in piazza e nei luoghi del ricordo, ma tantissime iniziative on line di associazioni, anche giovanili, impegnate nella staffetta  della memoria. Dimenticare  o trascurare questa data significa rinnegare la nostra stessa condizione di oggi, ma proprio per questo la riflessione deve subito andare oltre: la libertà che ci è stata affidata ha ancora tanto bisogno di cure e di attenzioni. Anche  di essere conosciuta meglio nel suo  vero significato, visto che, proprio in questo periodo,  a sentire le voci correnti, sembra  essere identificata quasi esclusivamente nel diritto del singolo ad avere vita sociale di aggregazione, anche quando il diritto alla salute e alla vita di tutti richiederebbe più attenzione e più rispetto.

Scorrere e ascoltare le pagine di qualche testo  potrebbe aiutare nella riflessione, partendo dai protagonisti fino a noi.

Il ricordo di una protagonista  della lotta partigiana e dei giorni della liberazione, accompagnato dalle considerazioni,  un po’ amare, di chi, dopo tante fatiche, sperava di raggiungere esiti più  duraturi di cambiamento .

 

“Non mi è mai importato niente di pellicce: l’unica che mi è piaciuta portare, l’unica che avrei voluto, l’unica che ho sentito mia, Ivano non me l’ha voluta regalare e ora l’ha buttata via. Me l’ha imprestata per l’occupazione di Torino, era di pelle di agnello bianca, presa a un tedesco in Russia durante la ritirata.   La notte della liberazione di Torino, Ivano mi dice: “Marisa mettiti tu per prima, tu che non sei armata, tieni la pelliccia spalancata con tutte e due le mani: sei un buon bersaglio. Ti vedono e ti sparano, noi spariamo subito”.

Ero una nuvola, un angelo, io difendevo la vita degli altri, io senz’armi, prima in una fila di compagni con grandi ali bianche di pelli di agnello.

E’ tutto strano in una città in cui si combatte:in un negozio donne fanno la fila per il cibo, pochi metri più in là si spara. Per un poco  una piazza è un campo di guerra e conquistarla è un’impresa. Beppe combatte in via Asti e quando liberano i prigionieri dalle  celle di tortura non si accorge che tra loro c’è sua sorella. In via s. Teresa si sta svolgendo una battaglia , ragazze con un bracciale bianco e una croce rossa vanno a raccogliere i feriti con noncuranza del pericolo, come se quel segno sul braccio le rendesse invisibili.

E poi è finito tutto.    Non ho preso i pidocchi in banda, non ho usato armi, non ho messo al collo il fazzoletto verde, non ho visto le battaglie, solo tutti i morti, dopo.

Il mondo non è diventato meraviglioso a un tratto, non è cambiato come noi pensavamo, forse per colpa nostra o forse no. Ci siamo ritrovati con la nostra gioventù distrutta per sempre, abbiamo dovuto continuare a fare scelte, a percorrere chilometri con ansie e paure, a passare posti di blocco.

Forse ci accompagnano sempre le speranze e i coraggi di   allora.

    Marisa Sacco, La pelliccia di agnello bianco

 

 

 Già nelle parole di Piero Calamandrei si coglieva l’ansia di un futuro capace di mantenere vivi i presupposti ideali che hanno ispirato la Costituzione, mettendola al riparo da rischi sempre presenti i rendendola indiscutibile nelle sue premesse di diritto.

“C’è nelle disposizioni transitorie del progetto un articolo che proibisce la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista. Non so perché questa disposizione sia stata messa tra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome fascismo, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia.

Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve essere collocata non tra le disposizioni transitorie e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire cosa c’è sotto a quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica.

Sarà l’organizzazione paramilitare, sarà il programma di violenze contrarie al diritto di libertà, sarà la negazione dei diritti delle minoranze:questi e altri sono i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti.[…]

C’è poi nella Costituzione un articolo 131 che dice ”la forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Ora se la nostra Costituzione ha votato l’immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura anche  a fortiori per le norme relative ai diritti di libertà.

Nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII i diritti di libertà erano affermati come preesistenti alla stessa Costituzione, diritti che nessuna volontà umana, né a maggioranza né all’unanimità poteva sopprimere, perché derivanti da una ragione profonda che è la natura stessa dell’uomo”

     Piero Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione

 

 

  La lotta e gli ideali che hanno ispirato la Carta costituzionale non ci hanno messo ovviamente al riparo una volta per tutte, soprattutto quando alcuni “vizi” ci  mettono sempre a rischio o quando le strutture del potere mettono alla prova le dinamiche che dovrebbero essere proprie di una democrazia.

In pratica le cose in Italia non cambiano mai, cambiano i nomi e le occasioni della storia, ma, in definitiva,  i nostri mali e i nostri vizi rimangono sempre desolatamente uguali”.

    Piero Gobetti,  La rivoluzione liberale 

 

“Che la permanenza delle oligarchie, o delle élites al potere, sia in contrasto con gli ideali democratici è fuori discussione. Ciò non toglie che vi sia pur sempre una sostanziale differenza tra un sistema politico in cui vi sono più élites in concorrenza tra loro nell’arena elettorale e un sistema in cui esiste un solo gruppo di potere che si rinnova per cooptazione. Mentre la presenza di un potere invisibile corrompe la democrazia, l’esistenza di gruppi di potere che si avvicendano mediante libere elezioni resta, almeno sino ad ora, l’unica forma in cui la democrazia ha trovato la sua concreta attuazione.  Non altrimenti accade nei riguardi dei limiti che l’uso delle procedure proprie della democrazia ha incontrato nell’estensione verso centri di potere tradizionalmente autocratici, come l’impresa o l’apparato burocratico: si tratta, più che di un fallimento, di un mancato sviluppo”.

     Norberto  Bobbio, Eguaglianza e libertà

 

La Resistenza è del resto nel dibattito culturale ancora fattore non unificante: di qui il rischio di appropriazioni o riletture che la trasformano in un cimelio, da celebrare o combattere, e non in un momento vitale della storia recente, che può ancora suggerirci molto, nelle analisi e nelle scelte politiche che ci stanno davanti.

“La messa in discussione della Resistenza come valore unificante   porta a un progressivo sfumare dell’intera questione del rapporto dell’Italia ai tempi della lotta partigiana e l’Italia odierna. Il tema, dopo aver avuto pesanti attacchi e revisioni  da parte soprattutto di un mondo politico che non ha saputo o voluto accompagnare la rilettura di una parte fondamentale della storia del paese, è stato dimenticato nel dibattito pubblico e relegato quasi a cimelio per nostalgici di tutte le parti[…].Il dibattito mostra peraltro la sua strumentalità, perché esplode e si spegne solo nel periodo attorno alla ricorrenza, per scomparire poi dall’agenda pubblica.”

      Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora  fascisti?

 

Anche Malavoglia, il coprotagonista dei miei romanzi, nel suo piccolo fa qualche riflessione utile sulla democrazia, proprio il giorno della presentazione al pubblico del suo libro: democrazia come ricerca e  impegno di giustizia concreta, quotidiana, che tutti possono condividere, non solo “gli addetti” alle cose di giustizia. Un modo di essere e di agire realizzato  da quanti,  soprattutto donne,  quotidianamente danno prove di  democrazia autentica, cercando di affrontare difficoltà, rimediare a torti, garantendo,  a se stessi e agli altri, l’esercizio di diritti.

 

 …Malavoglia si cacciò in mezzo con il suo libro in mano, proprio come un anziano cantante al suo ultimo palco dell’Ariston. Doveva scegliere le parole giuste per quei cinque minuti,anche perché si era già sforato con i tempi e la sala avrebbe accolto, fra poco, tutt’altro.

Si sentiva scoppiare il cuore. Forse gli sarebbe venuto un collasso e sarebbe morto lì, sotto le luci di quella piccola ribalta.[…]Parlò della giustizia e dell’ingiustizia; di quanto la giustizia debba essere forte, ma senza compiere forzature; di quanto sia facile sbagliare e impossibile, per molti, ammettere l’errore; come i giudici debbano essere umili, salvo che chi lo è davvero viene umiliato; della democrazia, al centro di molti centri concentrici, tanto che quasi non la vedi, ma poi, se la trascuri, te ne accorgi. Concluse col suo sogno della democrazia salvata grazie, soprattutto, alle donne: dalla signora araba alla fermata del bus, con il suo bagaglio sospetto, alla suorina con il cappello grande bianco, quello con le due punte…

Poi fu travolto da qualcosa che poteva essere tutto: dall’abbraccio di molti alla ressa della gente che se ne andava, in una babele di lingue ma anche di voci.

 Ennio Tomaselli , Messa alla prova, cap. Tramonti e albe

 

 

 

 

 

 

 

 

In questo mese di marzo 2021, dopo notizie di cronaca su arresti, fermi e misure cautelari per l’assalto autunnale a molti negozi “del lusso” nel centro di Torino, ho scritto a La Voce e  il Tempo (settimanale torinese, osservatorio attento, equilibrato e responsabile non solo della realtà locale) una lettera, pubblicata, che è possibile leggere tramite i due link qui presenti.

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Non si sa più cosa pensare. O, meglio, forse si rischia di non aver più lo spazio per pensare. O troppo pieni o troppo vuoti. Le notizie ci arrivano da tutte le parti: dalle chat, dalle news sullo smartphone, dalle notifiche sui social, ovviamente (ma ormai in modo quasi minoritario) dalla carta stampata e dalla tv. Parole che si sommano o che litigano fra loro, che si accavallano in testa creando ripetizioni come mantra sui temi del giorno. Eppure, se appena ti fermi un attimo, hai l’impressione di non sapere nulla. Nulla, almeno, di quello che vorresti sapere, confondendo un po’ anche la notizia in sé con la ricerca di un suo significato.

Tutto, certo, è condizionato e contrassegnato dall’epoca della pandemia, per cui ogni argomento viene in fondo finalizzato a considerazioni che potevano valere prima e che forse non varranno più dopo. Ma mentre l’idea del prima è molto chiara (le nostre vite riviste alla moviola fino a fine febbraio 2020), il dopo non ha un chiaro punto di partenza. La fine dell’incubo, si dice. Affidata alle vaccinazioni di massa o alla più o meno vagheggiata “immunità di gregge”, sul cui possibile raggiungimento in tempi più o meno brevi, peraltro, gli stessi esperti non concordano affatto.

Viviamo nella nostra bolla, fragile, isolata da quella degli altri. Tutto questo se abbiamo avuto la fortuna di non essere stati toccati nemmeno di striscio dalla malattia, altrimenti le nostre bolle di protezione si sarebbero già dissolte in un attimo, lasciandoci in balia della sofferenza, dello smarrimento, della solitudine.

In realtà la pandemia tante cose non le ha azzerate: non ha sospeso le guerre (non è stata accettata la richiesta di armistizio internazionale mossa per due volte dal papa e da organismi internazionali), non ha fatto cessare  gli esodi dei profughi che hanno visto anzi peggiorare la precarietà delle loro sistemazioni, non ha azzerato gli odi razziali (forse esasperati da nuove povertà e restrizioni), non ha messo fine a situazioni di sfruttamento  e non ha migliorato (anzi!) le condizioni  climatiche o le emissioni di Co2. Tutte cose che sembrano far da sfondo, scenari lontani che stentano a trovare una loro messa a fuoco, anche se, in realtà, sono co-fattori della pandemia che stiamo vivendo (come nel caso degli squilibri dell’ecosistema o della diseguale distribuzione di risorse anche alimentari).

Ma su come tutto questo cambierà davvero il dopo non ci sono ancora proposte concrete o, se ce ne sono, vengono presentate per ora in modo cauto, per non sconvolgere la rassicurante attesa del “ritorno alla normalità”. Una normalità che spesso le interviste dei Tg preferiscono individuare e indicare nel ritorno alla possibilità di tornare a sedere tranquillamente ai bar per gli ormai mitici aperitivi o a cenare al ristorante; o anche nella possibilità di usufruire di strutture sportive, di tornare allo stadio a vedere le partite di calcio dal vivo. Naturalmente anche nel poter riprogrammare viaggi e spostamenti, specie in accattivanti località turistiche…

Intanto, qua e là nelle piazze o accanto ai cancelli di qualche scuola, alcuni studenti, di tutte le età, sono accampati con telefoni e tablet per seguire la didattica a distanza (ravvicinata) e per mostrare così la loro contrarietà a essere nuovamente “tagliati fuori” dal circuito scolastico, intessuto di relazioni quotidiane, di affetti e anche di lezioni e proposte culturali.

I loro rappresentanti lo dicono chiaramente, con i megafoni o ai microfoni: vogliamo per sempre scuole sicure, cioè con classi ridotte, con collegamenti di wi-fi efficienti, ma anche trasporti, funzionanti e dedicati, come in molti paesi europei. I più informati citano numeri e tabelle, chiedendo conferme ufficiali sui dati del contagio nelle scuole (sempre piuttosto fumosi, contraddittori e difficili da reperire), testimoniano disagi di apprendimento e relazionali, propri e dei loro fratelli più piccoli. Qualche volta i ragazzi sono affiancati dai genitori, che, dal loro punto di vista, testimoniano la difficoltà a lavorare da casa con i figli che fanno lezione o, al contrario, non sapendo a chi affidarli nel momento in cui, nelle zone rosse, anche le scuole dell’infanzia vengono chiuse.

Trovarsi per molte ore davanti a uno schermo per imparare non è in effetti molto gratificante. Né per gli adulti e tanto meno per bambini e adolescenti: manca il feedback immediato che si trova nello sguardo dell’insegnante, nelle battute dei compagni, nella possibilità di domande che figurino fatte a nome di tutti e non facciano sentire il disagio di essere individualizzati come quelli che non hanno capito e si affidano magari allo strumento delle chat di gruppo durante il collegamento.

Probabilmente il disagio degli adolescenti in DAD ha, però, radici più profonde e più risalenti: relazioni affettive, anche famigliari, fragili o malate, scarsa soddisfazione nel percorso di formazione della propria identità, impossibilità di costruirsi specchiandosi negli altri e dagli altri traendo rinforzo ai propri comportamenti. Tutte cose che gli psicologi stanno studiando per venire incontro ai disturbi alimentari, ai comportamenti autodistruttivi, al rifugio patologico nelle proprie stanze, vissute come isole da non abbandonare più per nessun motivo. Accorgendosi solo ora, per la sua mancanza, di quante funzioni di supplenza siano delegate alla scuola e da essa, in qualche modo, comunque svolte a sostegno dei ragazzi e anche delle loro famiglie (che continuano, peraltro, ad apprezzarne maggiormente l’aspetto della custodia).

I ragazzi, realisticamente, hanno capito tutto e purtroppo lo dimostrano proprio nella varia gradazione del loro disagio. Hanno percepito la gravità e profondità del vuoto: vuoto di relazioni, ma soprattutto di significati. Le relazioni sui social, moltiplicate con il loro bisogno di like e di visualizzazioni, sono in realtà una rappresentazione di relazione, una figura che le rappresenta ma anche le nasconde.  Altra cosa (come piacere e come sofferenza) avere addosso lo sguardo degli altri, i momenti da attendere e da temere, le telefonate che non si avvitano su se stesse ma stabiliscono ore e luoghi di incontri, cioè di attimi di vita da preparare, aspettare, da collezionare con gioia o da cancellare nella memoria. Emozioni e sentimenti, forse, anche per capire come spendersi, ora che la riuscita scolastica è collegata quasi più all’efficienza dei collegamenti di rete, o alla capacità degli adulti di non ripetere on line le già logore liturgie delle lezioni frontali, che non alla voglia di apprendere e misurarsi.

Tuttavia, quando hanno trovato adulti concreti, capaci di trasmettere segnali forti di attenzione al mondo e agli altri, capaci di indirizzare energie per salvare e salvarsi in un’arca di Noè costruita da sforzi comuni, i ragazzi hanno saputo, in questi mesi, dare il meglio di sé e della loro creatività. Il volontariato giovanile in molte città e situazioni è aumentato (dicono le statistiche) fino al 110%: molti ragazzi hanno sostituito gli anziani, volontari da sempre ma ora rifugiati in casa, hanno fatto pacchi per le spese per persone in difficoltà, recapitato medicine, accompagnato alle visite o inventato applicazioni per consentire di usufruire servizi sicuri da casa.

Certo, altri hanno fatto assembramenti, si sono ubriacati per strada, hanno manifestato contro chiusure di locali e hanno fatto feste private… Un comportamento solo giovanile? Considerando non solo l’età dei protagonisti di queste sfide, potremmo vederli non molto differenti dalle provocazioni dei signori di mezza età che hanno riempito i ristoranti o le vie dello shopping, lamentandosi per le perdite incombenti di libertà e di democrazia. Un mondo del prima, che forse senza le idee troppo chiare sui diritti prevalenti ed essenziali e sul loro esercizio, rivendica oggi il ritorno a situazioni di vita che il crescere delle disuguaglianze non renderà più possibili, come erano, dopo.

Tra il prima e il dopo uno spazio di mezzo, tra gli affanni del quotidiano, ci potrebbe ancora consentire di recuperare. Siamo tutti adulti in DAD, che dovremmo, oggi, avere il coraggio di testimoniare a cosa sapremo rinunciare, dopo, per riempire almeno un po’ il vuoto dei giovani, offrendo il tempo non affannato di una ricerca insieme, di una consulenza disinteressata, di un’esperienza condivisa, pronta ad aprirsi al cambiamento. Qualcosa fatto con i giovani, progettato con loro e non per loro. Un cambiamento che non conosciamo, che teoricamente è a volte lontano dalle nostre aspettative, ma che è frutto di passione comune.  L’unica che poteva aiutarci prima e che potrebbe salvarci dal vuoto di senso e di prospettive comuni, dopo.