“Dvorak pensava all’America, ma per noi il nuovo mondo deve ancora venire”: parole ascoltate direttamente dalla voce di Primo Levi, uscita dallo scrigno delle teche Rai, che hanno commentato l’esecuzione della Sinfonia dal Nuovo mondo. Il concerto, tenutosi alla vigilia dell’inaugurazione del Salone del libro di Torino 2021, è stato pensato come sottolineatura del titolo di esso, Vita Supernova; un titolo come augurio di rinnovamento, auspicato come rinascita, come nuovo mondo possibile, proposto attraverso l’arte e la cultura. Proposto, tuttavia, non solo ai visitatori, in attesa da due anni, ma a tutti, alla ricerca come siamo della tranquillità del prima, consapevoli – seppur confusamente – che il dopo non dovrebbe essere uguale, se davvero vogliamo realizzare una vita supernova.
Lo scrittore Javier Cercas, presente all’evento, ha ricordato come dopo l’epidemia di “spagnola”, dei primi del ’900, vi sia stata una fioritura di opere letterarie, alcune rimaste come capolavori indiscussi, quelli che tutti hanno letto e leggono.
Le proposte del Salone quest’anno sono state, come e più del solito, molto variegate. Vista l’accoglienza del pubblico, è emersa la prova che anche in un’era social come la nostra (in cui, in fondo, tutte le opere e gli autori sono raggiungibili con un clic) la comunicazione in presenza, la fisicità dei libri e il suono delle voci sanno coagulare emozioni e suscitare sentimenti. Con l’aggiunta del piacere quasi fisico di fare qualcosa come prima.
Nel mio piccolo, anch’io sono stato coinvolto da questa Vita Supernova: cinque giorni di incontri, di contatti, anche di sorrisi, pur dietro le immancabili mascherine. Ho rivisto “la mia casa editrice”, nelle persone che l’hanno fondata o che ora la mandano avanti con tenacia nonostante le difficoltà del periodo e del mercato; così come gli amici e i conoscenti che sono venuti alla presentazione di Un anno strano, portando il loro sostegno.
Ho avuto anche la soddisfazione di ascoltare gli apprezzamenti di una scrittrice quale Margherita Oggero e le riflessioni sempre ricche (e messe alla prova nella realtà) di Franco Prina. Un ottimo bilancio, dunque, che spinge inevitabilmente a nuovo impegno. Quell’impegno di scrittura che è anche testimonianza, resa, come ho detto rispondendo a una domanda, anche mettendo a frutto immaginazione e fantasia. La cultura parla e trasforma, a patto di condividerla il più possibile, di farla “girare”, tra emozioni comunicate e altre condivise.
Le immagini del brevissimo video (v. link) tentano di testimoniare quell’atmosfera e, anche da parte mia, quelle speranze di continuità d’impegno verso un mondo nuovo. Anche, semplicemente, scrivendo romanzi.
Il ritorno in città non è mai cosa semplice. Si patisce il cambio di clima, l’abbandono del contatto con la natura, l’improvvisa assenza di quegli spazi ambientali e psicologici che hanno consentito di pensare (o di tentare di farlo), una volta tanto, senza la pressione del tempo che passa o degli impegni da affrontare.
Quest’anno in particolare, anche se abbiamo cercato di tenerli a bada prima, tanti argomenti abitano la nostra mente al ritorno a casa. Tante le immagini che si affollano, quasi sovrapponendosi, della nostra estate e dell’estate dei fatti del mondo. Certamente qualcuna di esse ci pesa particolarmente sul cuore e interpella le nostre intenzioni di impegno di oggi e di domani.
Quel bambino passato di mano in mano e proteso con sforzo verso un soldato armato di tutto punto, sopra un muro e sopra un filo spinato, non può restare, dentro di noi, un’immagine puramente iconica del dramma vissuto dall’Afghanistan, precipitato ad agosto. Troppe mani di madri e padri, nella storia, hanno proteso figli verso l’altrove, ignoto e inquietante, pur di sottrarli alla tragedia sicura del presente.
Ma verso quale altrove? Con quali offerte di futuro e possibilità di dignità? Quante volte ci siamo limitati, come fanno spesso anche i governi come strategia politica, a spostare il problema un po’ più in là, tanto per non perderlo di vista, ma nello stesso tempo non averlo proprio davanti agli occhi?
In mezzo agli sviluppi di una pandemia che si fatica ad affrontare (al di là dei casi di rifiuto) con la sinergia globale che sarebbe richiesta per un virus che non fa distinzioni di continenti, ancora per molti aspetti imprevedibile nei suoi sviluppi futuri, il mondo si rende più fragile con le sue guerre, i suoi innumerevoli conflitti, le sue sempre inarrestabili conquiste di potere.
Anche nel nostro quotidiano non siamo da meno. Purtroppo il conflitto sociale ad agosto si è ulteriormente appesantito, si sono costruiti tanti rivoli di contrapposizioni e le sigle che cercano di identificarlo e classificarlo si stanno moltiplicando ulteriormente. Forse abbiamo una sorta di bisogno di contrapporci, con articoli, dibattiti e interventi: per non cedere all’ansia, spostando la contrarietà sulla contesa e non sulla situazione che stiamo vivendo.
Credo, peraltro, che non dovremmo perdere di vista orizzonti più ampi. I Paesi che non possono permettersi cure sanitarie o strumenti di profilassi saranno solamente affidati agli organismi internazionali e alle associazioni che stanno raccogliendo medicamenti e fondi per far affrontare ai più deboli la pandemia? Lo scorrere dei giorni di questa strana normalità “sotto condizione” potrà ancora a lungo rimuovere questo scenario globale di inferiorità e anche di sfruttamenti economici?
Grandi problemi, certo non risolvibili dai singoli … Ma se imparassimo a chiedere ai media più informazione qualificata proprio in questi settori? Alcune firme autorevoli (penso, in particolare, a Domenico Quirico, su “La Stampa”) hanno descritto la situazione in questo periodo, a volte anche spiazzandoci per la crudezza dell’analisi. Dovremmo cercare di non farle tacere dentro di noi e di promuovere approfondimenti senza farci distrarre troppo dal nostro quotidiano, senza metterli “in seconda serata” anche nella nostra mente, come nei palinsesti televisivi. Forse è ancora troppo poco, ma dovrebbe almeno servire a zittire un po’ i soliti mantra delle contese quotidiane.
Che poi fanno venire in mente Leopardi e La ginestra, studiata negli ultimi anni di scuola: “… in sul più vivo incalzar degli assalti, gli inimici obliando, acerbe gare imprender con gli amici e sparger fuga con brando infra i propri guerrieri” …
Ecco, tornando a casa bisognerebbe proprio tornare tutti a ricominciare a studiare e a prendere posizione. Sarebbe ora, è già tardi.
La voglia di vacanza è sempre più forte. Ed è ben comprensibile, dopo l’ansia di tanti mesi con notizie assai poco rassicuranti (e relative rimozioni), stili faticosi di rapporti di lavoro e di relazione, ansie e stress da notizie sanitarie e organizzazione della quotidianità. Spesso la voglia di fare festa va, però, sopra le righe. Anche lasciando da parte (una volta si sarebbe detto per carità di patria) il rave party, in Toscana, di circa 6.000 persone che le forze dell’ordine non sono riuscite a disperdere nemmeno nel giro di molte ore, si moltiplicano episodi di ricerca di feste rumorose, con assembramenti per brindisi, grigliate, abbuffate varie, in città come nei luoghi di villeggiatura. Complici, sicuramente, i successi azzurri agli Europei di calcio, che ci mostrano tifosi di tutte le età, gaudenti dopo le partite, assembrarsi tra di loro e intorno/addosso ai malcapitati cronisti (specie se donne) sulle piazze italiane collegate in diretta.
Normale, vien da dire: voglia di gioia, anche un po’ isterica, dopo tanta ansia e tanto dolore. Ma… dopo?
Le notizie delle varianti, ora denominate con le lettere dell’alfabeto greco per il politically correct, sono incombenti, forse opprimenti nella loro inesorabilità, visto che anche in copertina alcuni giornali fanno notare che i dati dei contagi in Italia per ora non aumentano quasi, ma non diminuiscono più da giorni. Forse proprio per questo “chi vuol essere lieto sia, del diman non v’è certezza” …
Tuttavia, proprio in mezzo a questo clima festaiolo o che vorrebbe comunque mostrarsi tale, i fatti di cronaca ci riportano, anch’essi inesorabilmente, a vicende di disagi esistenziali e psicologici, a uccisioni di donne di ogni età, a omicidi di giovani e tra giovani, a suicidi per bullismo e persecuzioni per l’orientamento sessuale. Tutto mentre la politica coglie al balzo l’occasione per schierarsi, dichiarare, contrapporsi.
Come al solito, e non solo per deformazione professionale, sono soprattutto le vicende dei ragazzi ad attrarre la mia attenzione. Ne accenno qui con tutti i limiti legati ad indagini ancora, necessariamente, incomplete, semplicemente segnalando qualche aspetto che appare, forse suggestivamente, emblematico.
Le vittime: un ragazzo, Orlando, appena maggiorenne, suicida da un cavalcavia sui binari della ferrovia, e Chiara, la ragazza quasi sedicenne uccisa da un coetaneo che si dichiara posseduto dal demonio. Orlando viveva a Torino in un quartiere non lontano dal mio; Chiara in un luogo di campagna e prati, non lontano da Bologna. Ma bisogna considerare pure l’assassino di Chiara: anche lui un minore, da tempo con segni (e forse segnali) di disagio. Storie diverse, certo, ma forse conviene comunque accennarne in parallelo.
Orlando da tempo aveva dichiarato la sua omosessualità, forse anche un orientamento transgender: sui social si definiva “principesso” e con tale nome era conosciuto dai suoi amici. Tutto sommato, sembrava ben inserito a scuola, un istituto professionale, ma non era sereno e pare anche che ultimamente avesse paura di qualcuno. Era stato in passato vittima di bullismo per le sue scelte di abbigliamento e le sue esternazioni di omosessualità, secondo quanto ora dice la madre (che però viveva in Calabria, mentre lui era rimasto a Torino con il padre). La signora allude anche al fatto che Orlando era facilmente plagiabile e cercava consenso.
Anche Chiara parlava di sé sui social, accennava a generici malesseri in qualche relazione scolastica del passato e alludeva anche a qualche disagio presente, ma sembrava ben determinata a guardare al futuro e ad andare avanti. Il suo assassino (indichiamolo con X: è un indagato minorenne) aveva già fatto lavoretti vari nella zona, anche per il padre di Chiara; era piuttosto silenzioso, anche se a tratti aveva manifestato scatti di rabbia, e, come altri ragazzi (compresa la sua vittima), trascorreva i pomeriggi nel centro d’incontro di un paese vicino, fatto nascere perché i giovani avessero un punto di aggregazione da una mamma il cui figlio, vittima di bullismo, aveva perso la vita ancora adolescente. Ivi, riportano sempre le cronache, X trascorreva molto tempo a giocare a biliardino, da solo, rimuginando chissà cosa dentro di sé. Era conosciuto dai Servizi, il suo disagio era già emerso perché aveva avuto degli incontri con lo psicologo che poi aveva ritenuto opportuno far iniziare per lui un percorso terapeutico con un neuropsichiatra; percorso che, peraltro, non era ancora iniziato.
Non è certo questa la sede per un’analisi di storie esistenziali e psicologiche complesse e di cui, come già accennato, almeno noi sappiamo ancora troppo poco. Ma quel malessere che, in forme e con atteggiamenti molto diversi, ha poi condotto questi giovani a divenire protagonisti di tragedie, nei panni delle vittime per Orlando e Chiara e dell’assassino per X, sembra costituire un amarissimo risvolto della medaglia rispetto a quella che, nel contempo, è talvolta divenuta smania di divertimento “risarcitorio” di gruppo di tanti, a partire dagli adulti, in ogni area del paese.
Forse Orlando e Chiara percepivano delle fragilità e in qualche modo si atteggiavano per combatterle, Chiara tirando con l’arco e Orlando vestendosi griffato e cercando consenso per potersi sentire protetto almeno dal look. Forse X cercava identificazioni forti in personaggi delle serie televisive, dove il noir e il rosa convivono in storie di innamoramenti e potere. Intanto migliaia di altri giovani, sulle colline pisane, dopo quasi una settimana, continuano a restare assembrati nel tentativo di riprendere il rave party più volte interrotto. Forse per continuare, insieme nella trasgressione, a sentirsi vivi e ancora, almeno in gruppo, soggetti forti, che dettano le loro condizioni a restrizioni, norme e malattia.
Qualcuno ha parlato di rimozione del dolore, altri di incapacità di sopportare la sofferenza e l’ansia. Non solo i giovani, se dobbiamo far riferimento alle interviste alle signore e ai signori che, seduti al tavolino di un bar o assembrati nelle strade di saldi, dicono di sentirsi scorrere dentro, nuovamente, la vita e di essersi ripresi la libertà negata.
Non voglio aggiungere altre, superflue, riflessioni alle tante già fatte sull’incapacità di gestire l’ottica del noi e di un interesse collettivo; non voglio sottolineare ancora come queste vite “in libertà” siano spesso definite tali nel momento in cui consumano tempo, bibite, cibo, merci. Mi sembra, in fondo, a suo modo coerente l’assembrarsi giovanile come protesta per la mancata riapertura delle discoteche: un perfetto contraltare alla democrazia assicurata, secondo molti, dalla riapertura dei locali e dalla ripresa della vita notturna.
Alla vigilia delle vacanze, credo, però, che dovremmo proprio rifletterci su per capire, come adulti, da che parte vogliamo stare e chi vogliamo essere. Almeno non tacendo.
L’ottica del carpe diem (peraltro mal compreso) inevitabilmente lascia da parte tutti quelli che non trovano motivi e neanche l’attimo fuggente da celebrare; così per quei giovani fragili, legittimamente fragili nella loro adolescenza, che sono il nostro specchio e in noi si rispecchiano, con le loro tenere finzioni e le loro ricerche di affetto. Tanti ragazzi come loro ci circondano, ci sono vicini, con le loro sbruffonerie e i loro mutismi, la loro sofferenza camuffata: l’educazione che offre sistemi per creare sempre nuovi specchi per farli specchiare in noi (e forse piacersi) oggi ha mostrato tutti i suoi limiti. Rischiamo di affidarci e di affidarli solo a specchi deformanti. Che cosa d’altro abbiamo da offrire di noi a loro? Bisognerebbe prima di tutto cercarlo, questo altro …
Forse potremmo, “semplicemente”, avvalerci delle vacanze anche per conoscerci: ancora, più profondamente, in un certo senso nuovamente. Anche se non è facile …
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-07-10 11:33:052021-07-10 11:33:05Che cosa fare in vacanza
Anche quest’anno, a causa della pandemia, il 25 aprile vedrà pochissime persone in piazza e nei luoghi del ricordo, ma tantissime iniziative on line di associazioni, anche giovanili, impegnate nella staffetta della memoria. Dimenticare o trascurare questa data significa rinnegare la nostra stessa condizione di oggi, ma proprio per questo la riflessione deve subito andare oltre: la libertà che ci è stata affidata ha ancora tanto bisogno di cure e di attenzioni. Anche di essere conosciuta meglio nel suo vero significato, visto che, proprio in questo periodo, a sentire le voci correnti, sembra essere identificata quasi esclusivamente nel diritto del singolo ad avere vita sociale di aggregazione, anche quando il diritto alla salute e alla vita di tutti richiederebbe più attenzione e più rispetto.
Scorrere e ascoltare le pagine di qualche testo potrebbe aiutare nella riflessione, partendo dai protagonisti fino a noi.
Il ricordo di una protagonista della lotta partigiana e dei giorni della liberazione, accompagnato dalle considerazioni, un po’ amare, di chi, dopo tante fatiche, sperava di raggiungere esiti più duraturi di cambiamento .
“Non mi è mai importato niente di pellicce: l’unica che mi è piaciuta portare, l’unica che avrei voluto, l’unica che ho sentito mia, Ivano non me l’ha voluta regalare e ora l’ha buttata via. Me l’ha imprestata per l’occupazione di Torino, era di pelle di agnello bianca, presa a un tedesco in Russia durante la ritirata. La notte della liberazione di Torino, Ivano mi dice: “Marisa mettiti tu per prima, tu che non sei armata, tieni la pelliccia spalancata con tutte e due le mani: sei un buon bersaglio. Ti vedono e ti sparano, noi spariamo subito”.
Ero una nuvola, un angelo, io difendevo la vita degli altri, io senz’armi, prima in una fila di compagni con grandi ali bianche di pelli di agnello.
E’ tutto strano in una città in cui si combatte:in un negozio donne fanno la fila per il cibo, pochi metri più in là si spara. Per un poco una piazza è un campo di guerra e conquistarla è un’impresa. Beppe combatte in via Asti e quando liberano i prigionieri dalle celle di tortura non si accorge che tra loro c’è sua sorella. In via s. Teresa si sta svolgendo una battaglia , ragazze con un bracciale bianco e una croce rossa vanno a raccogliere i feriti con noncuranza del pericolo, come se quel segno sul braccio le rendesse invisibili.
E poi è finito tutto. Non ho preso i pidocchi in banda, non ho usato armi, non ho messo al collo il fazzoletto verde, non ho visto le battaglie, solo tutti i morti, dopo.
Il mondo non è diventato meraviglioso a un tratto, non è cambiato come noi pensavamo, forse per colpa nostra o forse no. Ci siamo ritrovati con la nostra gioventù distrutta per sempre, abbiamo dovuto continuare a fare scelte, a percorrere chilometri con ansie e paure, a passare posti di blocco.
Forse ci accompagnano sempre le speranze e i coraggi di allora.
Marisa Sacco, La pelliccia di agnello bianco
Già nelle parole di Piero Calamandrei si coglieva l’ansia di un futuro capace di mantenere vivi i presupposti ideali che hanno ispirato la Costituzione, mettendola al riparo da rischi sempre presenti i rendendola indiscutibile nelle sue premesse di diritto.
“C’è nelle disposizioni transitorie del progetto un articolo che proibisce la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista. Non so perché questa disposizione sia stata messa tra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome fascismo, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia.
Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve essere collocata non tra le disposizioni transitorie e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire cosa c’è sotto a quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica.
Sarà l’organizzazione paramilitare, sarà il programma di violenze contrarie al diritto di libertà, sarà la negazione dei diritti delle minoranze:questi e altri sono i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti.[…]
C’è poi nella Costituzione un articolo 131 che dice ”la forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Ora se la nostra Costituzione ha votato l’immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura anche a fortiori per le norme relative ai diritti di libertà.
Nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII i diritti di libertà erano affermati come preesistenti alla stessa Costituzione, diritti che nessuna volontà umana, né a maggioranza né all’unanimità poteva sopprimere, perché derivanti da una ragione profonda che è la natura stessa dell’uomo”
Piero Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione
La lotta e gli ideali che hanno ispirato la Carta costituzionale non ci hanno messo ovviamente al riparo una volta per tutte, soprattutto quando alcuni “vizi” ci mettono sempre a rischio o quando le strutture del potere mettono alla prova le dinamiche che dovrebbero essere proprie di una democrazia.
“In pratica le cose in Italia non cambiano mai, cambiano i nomi e le occasioni della storia, ma, in definitiva, i nostri mali e i nostri vizi rimangono sempre desolatamente uguali”.
Piero Gobetti, La rivoluzione liberale
“Che la permanenza delle oligarchie, o delle élites al potere, sia in contrasto con gli ideali democratici è fuori discussione. Ciò non toglie che vi sia pur sempre una sostanziale differenza tra un sistema politico in cui vi sono più élites in concorrenza tra loro nell’arena elettorale e un sistema in cui esiste un solo gruppo di potere che si rinnova per cooptazione. Mentre la presenza di un potere invisibile corrompe la democrazia, l’esistenza di gruppi di potere che si avvicendano mediante libere elezioni resta, almeno sino ad ora, l’unica forma in cui la democrazia ha trovato la sua concreta attuazione. Non altrimenti accade nei riguardi dei limiti che l’uso delle procedure proprie della democrazia ha incontrato nell’estensione verso centri di potere tradizionalmente autocratici, come l’impresa o l’apparato burocratico: si tratta, più che di un fallimento, di un mancato sviluppo”.
Norberto Bobbio, Eguaglianza e libertà
La Resistenza è del resto nel dibattito culturale ancora fattore non unificante: di qui il rischio di appropriazioni o riletture che la trasformano in un cimelio, da celebrare o combattere, e non in un momento vitale della storia recente, che può ancora suggerirci molto, nelle analisi e nelle scelte politiche che ci stanno davanti.
“La messa in discussione della Resistenza come valore unificante porta a un progressivo sfumare dell’intera questione del rapporto dell’Italia ai tempi della lotta partigiana e l’Italia odierna. Il tema, dopo aver avuto pesanti attacchi e revisioni da parte soprattutto di un mondo politico che non ha saputo o voluto accompagnare la rilettura di una parte fondamentale della storia del paese, è stato dimenticato nel dibattito pubblico e relegato quasi a cimelio per nostalgici di tutte le parti[…].Il dibattito mostra peraltro la sua strumentalità, perché esplode e si spegne solo nel periodo attorno alla ricorrenza, per scomparire poi dall’agenda pubblica.”
Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora fascisti?
Anche Malavoglia, il coprotagonista dei miei romanzi, nel suo piccolo fa qualche riflessione utile sulla democrazia, proprio il giorno della presentazione al pubblico del suo libro: democrazia come ricerca e impegno di giustizia concreta, quotidiana, che tutti possono condividere, non solo “gli addetti” alle cose di giustizia. Un modo di essere e di agire realizzato da quanti, soprattutto donne, quotidianamente danno prove di democrazia autentica, cercando di affrontare difficoltà, rimediare a torti, garantendo, a se stessi e agli altri, l’esercizio di diritti.
…Malavoglia si cacciò in mezzo con il suo libro in mano, proprio come un anziano cantante al suo ultimo palco dell’Ariston. Doveva scegliere le parole giuste per quei cinque minuti,anche perché si era già sforato con i tempi e la sala avrebbe accolto, fra poco, tutt’altro.
Si sentiva scoppiare il cuore. Forse gli sarebbe venuto un collasso e sarebbe morto lì, sotto le luci di quella piccola ribalta.[…]Parlò della giustizia e dell’ingiustizia; di quanto la giustizia debba essere forte, ma senza compiere forzature; di quanto sia facile sbagliare e impossibile, per molti, ammettere l’errore; come i giudici debbano essere umili, salvo che chi lo è davvero viene umiliato; della democrazia, al centro di molti centri concentrici, tanto che quasi non la vedi, ma poi, se la trascuri, te ne accorgi. Concluse col suo sogno della democrazia salvata grazie, soprattutto, alle donne: dalla signora araba alla fermata del bus, con il suo bagaglio sospetto, alla suorina con il cappello grande bianco, quello con le due punte…
Poi fu travolto da qualcosa che poteva essere tutto: dall’abbraccio di molti alla ressa della gente che se ne andava, in una babele di lingue ma anche di voci.
Ennio Tomaselli , Messa alla prova, cap. Tramonti e albe
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-04-24 15:25:322021-04-24 15:25:3225 aprile 2021: curare e custodire libertà
In questo mese di marzo 2021, dopo notizie di cronaca su arresti, fermi e misure cautelari per l’assalto autunnale a molti negozi “del lusso” nel centro di Torino, ho scritto a La Voce e il Tempo (settimanale torinese, osservatorio attento, equilibrato e responsabile non solo della realtà locale) una lettera, pubblicata, che è possibile leggere tramite i due link qui presenti.
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-03-28 15:47:572021-03-28 15:47:57Lettera al direttore
Non si sa più cosa pensare. O, meglio, forse si rischia di non aver più lo spazio per pensare. O troppo pieni o troppo vuoti. Le notizie ci arrivano da tutte le parti: dalle chat, dalle news sullo smartphone, dalle notifiche sui social, ovviamente (ma ormai in modo quasi minoritario) dalla carta stampata e dalla tv. Parole che si sommano o che litigano fra loro, che si accavallano in testa creando ripetizioni come mantra sui temi del giorno. Eppure, se appena ti fermi un attimo, hai l’impressione di non sapere nulla. Nulla, almeno, di quello che vorresti sapere, confondendo un po’ anche la notizia in sé con la ricerca di un suo significato.
Tutto, certo, è condizionato e contrassegnato dall’epoca della pandemia, per cui ogni argomento viene in fondo finalizzato a considerazioni che potevano valere primae che forse non varranno più dopo. Ma mentre l’idea del prima è molto chiara (le nostre vite riviste alla moviola fino a fine febbraio 2020), il dopo non ha un chiaro punto di partenza. La fine dell’incubo, si dice. Affidata alle vaccinazioni di massa o alla più o meno vagheggiata “immunità di gregge”, sul cui possibile raggiungimento in tempi più o meno brevi, peraltro, gli stessi esperti non concordano affatto.
Viviamo nella nostra bolla, fragile, isolata da quella degli altri. Tutto questo se abbiamo avuto la fortuna di non essere stati toccati nemmeno di striscio dalla malattia, altrimenti le nostre bolle di protezione si sarebbero già dissolte in un attimo, lasciandoci in balia della sofferenza, dello smarrimento, della solitudine.
In realtà la pandemia tante cose non le ha azzerate: non ha sospeso le guerre (non è stata accettata la richiesta di armistizio internazionale mossa per due volte dal papa e da organismi internazionali), non ha fatto cessare gli esodi dei profughi che hanno visto anzi peggiorare la precarietà delle loro sistemazioni, non ha azzerato gli odi razziali (forse esasperati da nuove povertà e restrizioni), non ha messo fine a situazioni di sfruttamento e non ha migliorato (anzi!) le condizioni climatiche o le emissioni di Co2. Tutte cose che sembrano far da sfondo, scenari lontani che stentano a trovare una loro messa a fuoco, anche se, in realtà, sono co-fattori della pandemia che stiamo vivendo (come nel caso degli squilibri dell’ecosistema o della diseguale distribuzione di risorse anche alimentari).
Ma su come tutto questo cambierà davvero il dopo non ci sono ancora proposte concrete o, se ce ne sono, vengono presentate per ora in modo cauto, per non sconvolgere la rassicurante attesa del “ritorno alla normalità”. Una normalità che spesso le interviste dei Tg preferiscono individuare e indicare nel ritorno alla possibilità di tornare a sedere tranquillamente ai bar per gli ormai mitici aperitivi o a cenare al ristorante; o anche nella possibilità di usufruire di strutture sportive, di tornare allo stadio a vedere le partite di calcio dal vivo. Naturalmente anche nel poter riprogrammare viaggi e spostamenti, specie in accattivanti località turistiche…
Intanto, qua e là nelle piazze o accanto ai cancelli di qualche scuola, alcuni studenti, di tutte le età, sono accampati con telefoni e tablet per seguire la didattica a distanza (ravvicinata) e per mostrare così la loro contrarietà a essere nuovamente “tagliati fuori” dal circuito scolastico, intessuto di relazioni quotidiane, di affetti e anche di lezioni e proposte culturali.
I loro rappresentanti lo dicono chiaramente, con i megafoni o ai microfoni: vogliamo per sempre scuole sicure, cioè con classi ridotte, con collegamenti di wi-fi efficienti, ma anche trasporti, funzionanti e dedicati, come in molti paesi europei. I più informati citano numeri e tabelle, chiedendo conferme ufficiali sui dati del contagio nelle scuole (sempre piuttosto fumosi, contraddittori e difficili da reperire), testimoniano disagi di apprendimento e relazionali, propri e dei loro fratelli più piccoli. Qualche volta i ragazzi sono affiancati dai genitori, che, dal loro punto di vista, testimoniano la difficoltà a lavorare da casa con i figli che fanno lezione o, al contrario, non sapendo a chi affidarli nel momento in cui, nelle zone rosse, anche le scuole dell’infanzia vengono chiuse.
Trovarsi per molte ore davanti a uno schermo per imparare non è in effetti molto gratificante. Né per gli adulti e tanto meno per bambini e adolescenti: manca il feedback immediato che si trova nello sguardo dell’insegnante, nelle battute dei compagni, nella possibilità di domande che figurino fatte a nome di tutti e non facciano sentire il disagio di essere individualizzati come quelli che non hanno capito e si affidano magari allo strumento delle chat di gruppo durante il collegamento.
Probabilmente il disagio degli adolescenti in DAD ha, però, radici più profonde e più risalenti: relazioni affettive, anche famigliari, fragili o malate, scarsa soddisfazione nel percorso di formazione della propria identità, impossibilità di costruirsi specchiandosi negli altri e dagli altri traendo rinforzo ai propri comportamenti. Tutte cose che gli psicologi stanno studiando per venire incontro ai disturbi alimentari, ai comportamenti autodistruttivi, al rifugio patologico nelle proprie stanze, vissute come isole da non abbandonare più per nessun motivo. Accorgendosi solo ora, per la sua mancanza, di quante funzioni di supplenza siano delegate alla scuola e da essa, in qualche modo, comunque svolte a sostegno dei ragazzi e anche delle loro famiglie (che continuano, peraltro, ad apprezzarne maggiormente l’aspetto della custodia).
I ragazzi, realisticamente, hanno capito tutto e purtroppo lo dimostrano proprio nella varia gradazione del loro disagio. Hanno percepito la gravità e profondità del vuoto: vuoto di relazioni, ma soprattutto di significati. Le relazioni sui social, moltiplicate con il loro bisogno di like e di visualizzazioni, sono in realtà una rappresentazione di relazione, una figura che le rappresenta ma anche le nasconde. Altra cosa (come piacere e come sofferenza) avere addosso lo sguardo degli altri, i momenti da attendere e da temere, le telefonate che non si avvitano su se stesse ma stabiliscono ore e luoghi di incontri, cioè di attimi di vita da preparare, aspettare, da collezionare con gioia o da cancellare nella memoria. Emozioni e sentimenti, forse, anche per capire come spendersi, ora che la riuscita scolastica è collegata quasi più all’efficienza dei collegamenti di rete, o alla capacità degli adulti di non ripetere on line le già logore liturgie delle lezioni frontali, che non alla voglia di apprendere e misurarsi.
Tuttavia, quando hanno trovato adulti concreti, capaci di trasmettere segnali forti di attenzione al mondo e agli altri, capaci di indirizzare energie per salvare e salvarsi in un’arca di Noè costruita da sforzi comuni, i ragazzi hanno saputo, in questi mesi, dare il meglio di sé e della loro creatività. Il volontariato giovanile in molte città e situazioni è aumentato (dicono le statistiche) fino al 110%: molti ragazzi hanno sostituito gli anziani, volontari da sempre ma ora rifugiati in casa, hanno fatto pacchi per le spese per persone in difficoltà, recapitato medicine, accompagnato alle visite o inventato applicazioni per consentire di usufruire servizi sicuri da casa.
Certo, altri hanno fatto assembramenti, si sono ubriacati per strada, hanno manifestato contro chiusure di locali e hanno fatto feste private… Un comportamento solo giovanile? Considerando non solo l’età dei protagonisti di queste sfide, potremmo vederli non molto differenti dalle provocazioni dei signori di mezza età che hanno riempito i ristoranti o le vie dello shopping, lamentandosi per le perdite incombenti di libertà e di democrazia. Un mondo del prima, che forse senza le idee troppo chiare sui diritti prevalenti ed essenziali e sul loro esercizio, rivendica oggi il ritorno a situazioni di vita che il crescere delle disuguaglianze non renderà più possibili, come erano, dopo.
Tra il prima e il dopo uno spazio di mezzo, tra gli affanni del quotidiano, ci potrebbe ancora consentire di recuperare. Siamo tutti adulti in DAD, che dovremmo, oggi, avere il coraggio di testimoniare a cosa sapremo rinunciare, dopo, per riempire almeno un po’ il vuoto dei giovani, offrendo il tempo non affannato di una ricerca insieme, di una consulenza disinteressata, di un’esperienza condivisa, pronta ad aprirsi al cambiamento. Qualcosa fatto con i giovani, progettato con loro e non per loro. Un cambiamento che non conosciamo, che teoricamente è a volte lontano dalle nostre aspettative, ma che è frutto di passione comune. L’unica che poteva aiutarci prima e che potrebbe salvarci dal vuoto di senso e di prospettive comuni, dopo.
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-03-20 11:48:572021-03-20 11:48:57Prima e dopo
Si è discusso e si discute molto dell’utilità della Memoria del passato, anche nelle sue pieghe più tenebrose, per aiutare a scongiurare il ripetersi del Male nel presente.
La Memoria è sicuramente indispensabile, contro ogni tentativo negazionista e contro il rinascere di movimenti che riaffiorano minacciosamente, qua e là nel mondo. Da sola però non è certamente sufficiente, se non è aiutata a creare anche occhi capaci di decifrare il presente e denunciarne i mali. Deve cioè creare consapevolezza, coscienza del pericolo possibile, tendenzialmente sempre in agguato.
La consapevolezza, poi, ha cammini spesso tortuosi, a volte apparentemente casuali.
In questi giorni di fine gennaio, in occasione della giorno della Memoria, noi siamo aiutati da testimonianze di percorsi molto differenti e anche da riflessioni sull’oggi. Sono collegate da un filo, che unisce il malessere dei nostri giorni tormentati al bisogno di una rinnovata coscienza per noi, uomini e donne, che non possiamo dimenticare quel passato, ma soprattutto non possiamo crearci alibi per non agire sul presente.
Leggiamo e ascoltiamo:
Da Sopravvissuta ad Auschwitz, di Eva Schloss
La consapevolezza è a volte scontata, improvvisa e dolorosa. Quando si vivono direttamente gli eventi è inequivocabile, meno facile è invece per gli altri prendere coscienza che tanti segnali non possono essere trascurati.
Con la disintegrazione dell’impero austroungarico dopo la Grande Guerra, la città aveva assistito ad episodi di guerra civile. A cavallo dei due secoli, le differenti nazioni e i vari ruppi etnici avevano dilaniato l’impero e, mentre i politici si insultavano in lingue diverse in parlamento, all’esterno si riversavano lavoratori in miseria per protestare contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, gli alloggi affollati e contro un’ondata di migranti che, secondo loro, rendeva difficile trovare un impiego …
I senzatetto erano drammaticamente cresciuti, la gente dormiva in brande sotto le pensiline dei tram, faceva la fila per dormire nei dormitori, non poteva permettersi di mangiare. Mentre la Vienna dei ricchi si riuniva nei caffè per discutere, la Vienna dei poveri si recava nelle mense popolari per ripararsi dal freddo, leggere le notizie sui giornali e ricevere un piatto di minestra. Quei quotidiani spesso raccontavano che tutti i problemi avevano un’unica causa: gli ebrei . Il sindaco incolpava gli uomini d’affari ebrei delle dure condizioni di vita e alcuni scrittori si mobilitavano per un movimento pangermanista e nazionalista che si rifaceva a leggende su un popolo ariano d’Europa, superiore alle altre genti dell’impero ….Non dimenticherò mai la paura e il terribile presentimento che provai all’arrivo a Vienna dei nazisti: furono accolti dal suono delle campane, da una folla acclamante e da gigantesche bandiere rosse con svastica nera appese ad ogni finestra …
D’improvviso erano scomparsi gli amici fraterni della mia infanzia, i soliti negozianti, gli autisti di tram e portieri, che avevo conosciuto fino al giorno prima, ora obbligavano gli ebrei a mettersi in ginocchio e a grattare via dai marciapiedi slogan che inneggiavano alla democrazia. Un uomo, sospettato di essere ebreo per il suo aspetto, veniva buttato giù dal tram e molti studenti venivano cacciati dalle scuole al grido di “fuori gli ebrei, i colpevoli!”.
Da Dora Bruder , Patrick Modiano
Anche di fronte a realtà concrete, terribili e disumanizzanti, siamo tentati di difenderci “non riuscendo a crederci”. Così è capitato anche ad alcune persone, non solo ebrei, rinchiuse nel velodromo di inverno di Parigi, luogo di arresti di massa durante l’occupazione nazista, da dove nel luglio del 1942 più di 5000 furono deportati in Germania.
(lettera di Robert Tartakovsky, critico d’arte) Sabato 20 giugno 1942.
Miei carissimi, ho ricevuto ieri la valigia, grazie di tutto. Non so, ma temo una partenza precipitosa. Oggi devo essere rapato a zero. Da questa sera chi dovrà partire sarà sicuramente chiuso in un edificio speciale e sorvegliato a vista, accompagnato anche al gabinetto da un gendarme. Su tutto il campo aleggia un’atmosfera lugubre. So che riceveremo tre giorni di viveri per il viaggio. Temo che sarò partito prima di ricevere i pacchi, non preoccupatevi, l’ultimo è molto ricco. State tranquilli, sarete nei miei pensieri.
Sono le 6.30.Temo di portarmi troppo, se chi perquisisce ne ha voglia può buttare giù una valigia se manca il posto o secondo l’ umore … Non appena non avrete più notizie, non perdete la testa, non datevi pena, aspettate con pazienza e fiducia, con fiducia in me. Il silenzio non vuol dire necessariamente che vada male.
Dite a mia madre che preferisco fare questo viaggio, avendo visto partire tanti altri per l’Altrove …
State vicini a mia madre e dite ad André che la persona di cui ha l’indirizzo l’ho incontrata il 1 maggio e che il 3 venivo arrestato (forse solo una coincidenza?) … Anche malati e infermi sono stati chiamati in gran numero per la partenza. Penso a tutti gli amici che con tanto affetto mi hanno aiutato a restare libero. Grazie di tutto cuore a quanti mi hanno fatto “passare l’inverno”. Lascio questa lettera in sospeso, devo preparare la borsa. Penna e orologio andranno a Marthe, qualunque cosa dica mia madre. Mamma cara e voi amatissimi, vi bacio con commozione.
Fatevi coraggio. A presto. Sono le 7.
Da Noi partigiani a cura di Gad Lerner
Altre volte la consapevolezza è immediata, come reazione ad atti clamorosi di ingiustizia o come educazione spontanea che nasce dal confronto con altri, con le loro vicende condivise, con i loro ideali .
intervista a Sante Bajardi
Da piccolo abitavo a Torino, quartiere barriera di Nizza, via Ormea 150. Un caseggiato di 118 famiglie.
Quando il 25 luglio del 1943 arrivò la notizia che Mussolini era caduto, l’applauso che si alzò da quei palazzoni, costruiti per gli operai dell’ultima periferia della città, era davvero fragoroso. Una cinquantina di ragazzi scesero in strada verso i luoghi dove si buttavano giù i simboli del fascismo. Andai anch’io e svelammo al mondo quello che nel vicinato sapevamo già: in quelle case eravamo tutti antifascisti …
Io ero figlio di un sarto siciliano e di una madre altoatesina, mio padre mi sognava ragioniere, ma eravamo troppo poveri e mi mandò alle scuole di avviamento professionale, l’Avogadro, allora il miglior istituto tecnico d’Italia.
In famiglia la politica non entrava. I primi dubbi me li mise una ragazza con cui filavo nel 1940. Era la commessa della panetteria vicino a noi, abitava a Moncalieri e veniva da ambienti antifascisti. Quando la accompagnavo a casa dopo il lavoro mi diceva cose che mi facevano pensare.
Così quando arrivò il 25 luglio sapevo da che parte stare. Entrai nelle SAP, eravamo giovanissimi, la generazione operaia del biennio rosso era stata ormai dispersa, distrutta. Noi siamo venuti dopo e non li abbiamo conosciuti. Il nostro obiettivo all’inizio era quello di far propaganda tra la gente, nelle boite, nelle osterie del quartiere, in modo che al momento giusto saremmo stati pronti a difendere il rione e le fabbriche.
intervista a Gastone Malaguti
Una mattina del 1938 ero seduto al mio banco in seconda media a Bologna. Accanto a me di solito c’era Davide, uno dei miei migliori amici, nel pomeriggio andavamo insieme in piscina. Quella mattina Davide non venne a scuola. Avevano comunicato a tutti gli ebrei che non si sarebbero dovuti più presentare in aula. Mi alzai di scatto e protestai “Cosa vuol dire? Davide non ha fatto nulla di male. Perché non si deve presentare più? Non è giusto!” Un caporione fascista tutto agghindato in orbace mi prese per un orecchio e mi buttò fuori della classe.”Quindici giorni di sospensione, così impari a protestare!” Tornato a casa, dissi a mio padre “In una scuola così non voglio più andare”. Mi rifiutai sempre, tanto che cominciai a lavorare come fattorino… Ma di lì mi fu chiaro che le ingiustizie andavano combattute. Sarà per questo che, quando arrivò l’8 settembre, a me e ai mie amici sembrò normale comportarci come facemmo.
intervista a Germano Nicolini
“Non dite che siete scoraggiati,che non ne volete più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere”.
Queste parole le ha scritte un mio amico, Giacomo Ulivi, nell’ultima lettera prima di essere fucilato a diciassette anni nel novembre 1944 a Modena. Ogni giorno della mia vita Giacomo continua ad essere con me.
Ed è grazie a persone come lui che ho resistito a testa alta.
Da Che cos’è la guerra, di Domenico Quirico.
A volte ci illudiamo che, finite le guerre, la pace sia la soluzione di tutto. Quale pace? quando la pace ti porta la necessità di rinnegare la tua terra e di fuggire, nuove guerre o nuove forme di guerra possono sempre essere incombenti. Inevitabili, anche se sbarriamo porte e finestre; ma dalla nostra parte abbiamo un’arma potente e pacifica, di cui spesso non abbiamo né rispetto né consapevolezza.
Le nazioni Unite, create nel 1945 per scongiurare definitivamente la guerra, sono un fallimento: i conflitti sono troppo piccoli e feroci per passare al setaccio della trattativa e troppo complessi per trasformare le risoluzioni, gli inviti,le parole, in tregua, accordo, pace. La guerra per l’ennesima volta ha cambiato aspetto, ha scombinato le carte di chi credeva di averla imbrigliata in regole, limiti, confini.
Le guerre di oggi, intorno a noi, non passano, non finiscono, ingoiano il dopoguerra, diventano eterne. Non c’è una magnifica pace, la firma di un accordo, non ci sono i reduci, i sopravvissuti che tornano a casa, guardano le rovine, si rimboccano le maniche e cominciano faticosamente, piangendo, a ricostruire. Il combattente, ma anche il civile, travolto dal conflitto non riesce ad uscirne. Il dopoguerra è ancora la guerra. Perché non c’è una via di uscita, non c’è una soluzione, il conflitto rimbalza su se stesso. Il sopravvissuto diventa profugo eterno, che non ha più alcuna speranza di tornare a casa, si trasforma in migrante e trasferisce la sua disgrazia in luoghi lontani e tra genti estranee che lo respingono come un possibile portatore dell’epidemia della violenza e della povertà. Non chiudiamo gli occhi. Guardiamo. Nessuno di noi è immune, la peste è entrata nelle città, anche nella nostra. Chiudere le porte, sbarrare le finestre non ci salverà .…
Che cosa resta all’occidente impaurito e malato per resistere? Il Diritto.
Ḗ questa la vera divisione del mondo, da una parte noi con la Legge che rende gli uomini uguali, che punisce l’arbitrio, codifica il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, che spetta ad ogni uomo; dall’altra, il mondo del non Diritto, dove chi ha il potere può arrestare, sequestrare, uccidere, senza che nessuna legge venga a chiedergliene conto.
Da La generazione del deserto, Lia Tagliacozzo; da un’ intervista a Lia Tagliacozzo di A. Zaccuri, l’Avvenire, 20/1/2021
A volte ciò che tortura oggi i “figli degli orfani”, i nipoti dei deportati, è proprio la mancanza di notizie su quanto abbiano vissuto i loro famigliari in quei giorni terribili. Non tanto quanto accadde, faticosamente ricostruito dagli storici, ma del loro sentire più o meno consapevole.
Anche se, secondo l’autrice, anche storicamente siamo lontani dalla piena consapevolezza di ciò che significarono quegli anni.
Noi, figli ultimi di chi allora patì bambino, siamo compressi in una memoria privata, a volte segreta e taciuta, e una memoria mediata dalla conoscenza e dalle istituzioni …
Gli israeliti romani fino a quel momento non erano stati minacciati, per quanto i tedeschi avessero accentrato ogni potere nelle loro mani. Cominciava a farsi strada nei loro animi la speranza che gli eccessi, dei quali nelle altre terre precedentemente invase dagli eserciti germanici i loro fratelli di fede erano state vittime, non si sarebbero ripetuti a Roma. Ma nonostante il loro impegno a non farsi notare, a camminare lungo i muri, a non attirare mai l’attenzione, come se il solo vivere desse agli occupanti il diritto di decidere la loro vita, gli ebrei romani sarebbero stati imbrogliati. Eppure si fidarono. La prima volta il 26 settembre con l’estorsione di 50 kg di oro.
Cosa accadde ai miei in quei giorni? cosa sapevano di quanto stava accadendo? Cosa capirono? Avevano paura o si sentivano al sicuro? Come vivevano?….
…”In Italia non si è ancora sviluppata una coscienza storica e civile di quello che il fascismo ha rappresentato. E questa mancata consapevolezza resta un fatto pericoloso, che ha molto in comune con le esplosioni di intolleranza che negli ultimi tempi si sono fatte solamente più rumorose rispetto a qualche tempo fa.
In Italia l’antisemitismo è sempre esistito, ora però ha conseguito una sorta di legittimità, che troppo spesso viene confusa con la libertà di espressione”.
Da Le strade dritte, racconto di Ennio Tomaselli
Anche nelle storie personali il passato sembra giocare a rimpiattino con il nostro destino, quasi nascosto nelle pietre e nelle vie delle città. Ma proprio dal passato si può trarre consapevolezza per girare pagina. La storia di un ex condannato, che ha scontato la sua pena e che incontra, dopo anni, una “sua” giurata: insegnandole anche qualcosa e non solo a lei …
«…. Niente accuse di fatti di sangue. Avevo ventisette anni ed ero un fiancheggiatore. Voi, di anni, me ne avete dati sette, era giusto e da quello, in galera, sono ripartito con la testa. Dovevi essere una giusta anche come prof».
«Ho sempre e solo fatto la prof. Mi avevano chiamato per sostituire un altro giudice popolare. Così mi ritrovai in quell’aula, con la fascia tricolore sul petto, a guardare te e quell’altro, che invece era anziano».
«Anche tu eri giovane, ho capito che ne avevi solo pochi più di me. Alla sbarra pensi di tutto. Ci avevano beccato per la dichiarazione a scoppio ritardato di un pentito. Sono passati quasi quarantanni e quell’aula, anche se non più di corte o tribunale, è sempre lì, a cento metri da noi. Forse gli unici a ricordarsene»
«Sai cosa penso? Forse c’entrano anche queste strade dritte, questi incroci perpendicolari…» «Tipo sbarre». Anche Chiara sorrise: «Fammi fare la prof che deve esporre il concetto.
Questo: anche chi fa le vasche in via Garibaldi senza accorgersi di via Corte d’Appello e della Curia Maxima, che pure sono a pochi metri, e senza sapere niente … finirà per farsi attrarre, come da una calamita, in questo quadrilatero di strade e incrocio di storie. E allora saprà e capirà. La storia siamo noi e lo sono anche le strade che percorriamo, i palazzi, le chiese, i balconi!»
«Sì, basta pensare a come sono arrivato a sant’Egidio otto mesi fa … Ho deciso di tornare a Torino pensando che qui fosse meno difficile dare un senso alla vita. Da giovane il senso era, però, quello sbagliato e volevo riprovarci da anziano »…
Quando, dopo due settimane, Chiara lo rivide davanti alla chiesa, aveva un aspetto stanco e, accanto a sé, un ragazzo di colore.
«Lui è Hamid. L’avevo trovato, ubriaco, in piazza Statuto e me lo sono tirato dietro fino a dove sto, a san Donato. L’ho fatto lavorare nei mercati. Mi sono allevato l’erede, ma adesso tocca soprattutto a voi e al santo».
Chiara lo prese da parte: «Perché dici così, Franco? Come stai?»
«Come uno che ha avuto la pensione perché era già mezzo andato. Sai, Chiara, in carcere ho letto Pavese… Per lui Torino è amante e non madre né sorella. Io l’ho scelta come compagna di viaggio perché qui sei coinvolto comunque e, se ti dai da fare, magari di cose ne escono. Ho trovato voi e adesso anche Hamid. Con lui è come avere un figlio: ha sedici anni, come me quando arrivai qui, coi miei, dalla Sardegna».
A Chiara, per la commozione, non venivano le parole per rispondere. Franco continuò: «Mi basta sapere che mi fermerò sulla strada giusta, con il ricordo che porto e quello che lascio. Il resto della frase di Pavese tu, che sei prof, lo sai meglio di me». «Ma tu l’hai capito di più».
Era ormai buio. Nessuno dei passanti faceva caso a due anziani che salivano lentamente, come sostenendosi a vicenda, gli scalini della chiesa. Li seguiva lo sguardo di Hamid; che era lì per la prima volta ma, dopo aver camminato con Franco quasi dal fondo di via san Donato e averli sentiti parlare, aveva già capito quasi tutto. Anche che Cesare Pavese non era solo il nome di un posto pieno di libri dove era stato, con un educatore, prima di tagliare, inciuccarsi, salire sui tram e ritrovarsi in quella grande piazza dal nome strano.
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-01-23 16:28:272021-01-25 10:46:29Fare Memoria: un percorso di consapevolezza
In questo tempo di pandemia (qualcuno dice sospeso, altri bloccato) le nostre giornate sono percorse da discorsi ricorrenti, in cui ciascuno ha punti di riferimento diversi, a seconda del proprio ambiente di vita e del proprio ambito culturale.
Le tematiche sono però sempre quelle: la realtà che ci circonda e ci impaurisce, descritta, analizzata, discussa o negata. I nostri comportamenti ricorrenti in situazioni di pericolo comune o diffuso.
La resistenza e le azioni di coraggio di fronte alla minaccia di perdere sicurezze o, in qualche caso, anche le nostre stesse radici.
La necessità, al contrario, per alcuni di andare, di allontanarsi dalle proprie case per poter conservare da lontano la speranza, il ricordo e per poter aiutare gli altri che restano, mantenere la propria cultura , per potersi dire in qualche modo ancora vivi.
La nostalgia per ciò che non hai mai conosciuto davvero, ma che penseresti possibile e realizzabile solo se la vita e il mondo fossero diversi …
Ho voluto anch’io far riferimento a questi argomenti, cercando di allargare un po’ l’orizzonte al di là dei riferimenti quotidiani. In questo caleidoscopio di pensieri , parole e immagini che vengono da tempi, mondi ed esperienze diverse, si inseriscono timidamente anche alcune parole, alcune righe dei miei libri. Semplicemente, si aggiungono ad altre di più autorevoli compagni di letteratura, danno anche loro vita a pensieri di tante donne e uomini di ieri e di oggi. Dare voce a queste parole vuole essere un augurio per il nuovo anno, un augurio di tempo per studiare e pensare, di discernimento nell’agire, di coraggio nel buttare il cuore oltre l’ostacolo. Buon anno!
Buon ascolto e buona lettura!
Negazionismo( capXXXI Promessi sposi, A. Manzoni)
Negare è un meccanismo difensivo, un’esperienza di ieri e di oggi,ma ci difende davvero?
C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, “si diceva dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti”.
Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse.
Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza…
La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla .…In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso.. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire
Resistenza ( cap. IX-X Resto qui, M. Balzano)
La resistenza di un paese, che verrà sommerso per la costruzione di una diga a vantaggio di una grande industria, senza che gli abitanti possano partecipare ai vantaggi, ma nemmeno alle decisioni. E senza che i loro bisogni siano compresi, sotto il regime dittatoriale come nella democrazia per cui hanno lottato.
Qualche giorno più tardi, alle luci dell’alba gli stessi contadini riuscirono a scavalcare il posto di blocco.. I carabinieri spararono in aria, ma lo stesso i quattro correvano e si lanciavano addosso ai manovali come chi è disposto a morire. Li disarmarono , gli misero i piedi in faccia e i contadini restarono immobilizzati sotto gli scarponi. Rossi di terra e di vergogna .… Finalmente la gente gridava, la gente piangeva,la gente era uscita per strada a guardarsi in faccia. Finalmente la gente era degna di questo nome e almeno per quel giorno nessuno pensava per sé, nessuno aveva fretta di rientrare, nessuno aveva un altro posto dove voleva essere, perché con lui c’erano le donne, i figli, gli animali, gli uomini con cui era cresciuto anche quando non gli avevano rivolto la parola,anche quando aveva fatto scelte contrarie alle sue … – Quei bastardi hanno chiuso le paratoie senza avvisarci-disse Erich. -Andiamo a Resia, ordinò il parroco. Ci mettemmo in fila. Eravamo più di duecento. Giovani e vecchi. Uomini e donne. Per strada qualcuno intonava cori, qualcun altro piangeva, qualcun altro strillava. Arrivammo a Resia nel pomeriggio e quando in lontananza scorgemmo due ingegneri della Montecatini, quelli rimasero paralizzati, poi, vedendo che eravamo un esercito, accelerarono il passo e alla fine si misero a correre come ladri di polli verso la casa di un carabiniere di cui gridavano il nome. I ragazzi lasciarono il gruppo per inseguirli. Noi gridavamo “miserabili”. I ragazzi afferrarono gli ingegneri e li spinsero verso la folla che in un attimo li circondò. – Avete chiuso le porte della diga? Chiese padre Alfred in quel silenzio pronto a esplodere. – Non abbiamo potuto avvisarvi dissero impacciati col fiato in gola. Arrivarono ad alta velocità due macchine dei carabinieri. Inchiodarono a pochi passi da noi. Scesero con le pistole in aria, si fecero largo tra la folla, gli ingegneri immediatamente si nascosero dietro di loro, che li misero al sicuro dentro l’automobile, mentre molti di noi non smettevano di insultarli. Poi si diressero decisi verso padre Alfred. Gli bloccarono i polsi e lo spinsero come si spingono i delinquenti sulla seconda macchina …Ad agosto vennero a mettere le croci sulle case che avrebbero fatto saltare con il tritolo ….
L’acqua ci ha messo quasi un anno a ricoprire tutto . E’ salita incessantemente fino a metà della torre, che da allora svetta come il busto di un naufrago sull’acqua increspata.
Disillusione ( cap. II La peste, A. Camus)
Non sempre la razionalità riesce a prevalere, tanto meno quando tutti sono minacciati da un nemico invisibile, che ci si prova ad affrontare lamentandosi e impedendosi di vedere la realtà
I sieri non arrivavano. “Tanto chissà se servirebbero”, si domandava Rieux,”è un bacillo strano questo”. “Ah, non sono d’accordo, quegli animaletti hanno sempre un aria speciale, ma alla fine sono tutti uguali”…
Se l’epidemia non si fermava da sé, non sarebbero state certo le misure prese dall’amministrazione a sconfiggerla … Ma dopo che chiusero le porte, tutti si resero conto di essere sulla stessa barca, compreso il narratore, e se ne fecero una ragione.
Così per esempio un sentimento privato quale la separazione da una persona cara divenne improvvisamente, sin dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio.
Quasi tutti erano sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio e irritazione e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione fu di prendersela con la pubblica amministrazione. La domanda era “ Non si può prevedere un alleggerimento delle misure adottate?” l’annuncio che nella prima settimana si erano toccati i trecentodue morti, rimaneva infatti qualcosa di astratto.
Destino (cap. Ḗ a Kayes..Esodo, D. Quirico)
L’inchiesta parte dai villaggi più poveri del Mali, da dove quotidianamente si parte per ingrossare le file di un esodo che pare infinito, doloroso,ma necessario e apparentemente ineludibile. Lasciare la casa per difendere casa.
E’ gentile Nyang, ma nei suoi occhi c’è una languida ostilità; non appartiene al nostro stesso mondo quel viso, noi per lui siamo al riparo dal dolore, dalla tragedia, dalla miseria. “La migrazione è una religione per noi. Siamo tutti migranti, la nostra vita è la migrazione. Perché studiamo francese a scuola? Per migrare. Perché lavoriamo come bestie? Per avere i soldi per migrare. Tutto il poco che abbiamo in Mali, questo paese disperato, è pagato dai migranti …Puoi raccontare tutto questo, l’orrore, le umiliazioni, i morti, mille e mille volte, ti guardano e dicono: la verità è che hai avuto paura per questo cerchi di convincerci.E’ arrivata la notizia che uno di noi era morto e due giorni dopo i fratelli hanno vuotato lo zainetto di scuola e sono partiti con la benedizione dei genitori…Partirà il primogenito scelto dalla famiglia, dal villaggio, perché sanno che i soldi torneranno qui. Il deserto avanza, senza la migrazione oggi saremmo già morti, tutto quello che abbiamo nel villaggio, l’acqua e la scuola lo dobbiamo ai migranti. Come potete dire che è una follia? È il nostro destino” ….
Accompagniamo al villaggio Drissa che torna da Parigi, espulso, dopo essere stato per quattordici anni un sans papier. In quattordici anni non è mai tornato a casa, trova figli grandi, tanti del villaggio non ci sono più, morti o partiti …Drissa adesso è nel suo villaggio, tutto quello che è stata la sua vita per quattordici anni, muratore e manovale in imprese di pulizie, Parigi, quello per cui ha lottato con tanto accanimento è stato lasciato indietro…
Ora sembra che Drissa abbia tutta la vita davanti per assaporare la sua delusione. Ha tentato, è arrivato dall’altra parte del mare, la casa che ha cercato di costruire, non più in bankò ma in cemento, si è fermata al primo piano. Ma un giorno, forse subito, ripartirà. Che cosa ci sta a fare qui? Qui è tutto morto. E gli altri lo sanno e lo ammirano per questo.
E’ questa una causa degna della loro devozione.
Riflessioni sulla vita e sulla morte (cap.Venerdì santo, Messa alla prova, E. Tomaselli )
Il magistrato Malavoglia si è trovato, non proprio per caso, a partecipare a una processione del venerdì santo nel suo quartiere. Lì, ha trovato in carne e ossa quasi tutti i protagonisti dei suoi fascicoli, con loro, in una atmosfera un po’ irreale, ha condiviso interrogativi ed emozioni.
A casa, quella notte, Malavoglia dormì ancora meno del solito; ma, nel suo vagare per le stanze come alla rincorsa di una logica inafferrabile, era più sereno.
La storia di Pasqua, metafora della vita, ruota, per come la vedeva lui (adesso gli sembrava di avere le idee più chiare), sempre attorno allo stesso punto. La morte riguarda tutto ciò che è umano, tant’è che l’ingiustizia degli uomini ha fatto fuori anche Gesù, il dio incarnatosi, e tocca a noi distinguere fra il male e l’ingiusto, che dovrebbero essere spazzati via come il loglio e non ricomparire mai più, e il buono-bello-giusto, che se ne vanno anche loro ma, nel contempo, dovrebbero rimanere in qualche modo fra ˗ e per ˗ chi resta, come se fossero anime, angeli, spiriti buoni che indicano la strada.
In quella notte si erano riuniti materialmente o idealmente tutti i fantasmi, con le ossessioni, della sua vita. ….La vita gli aveva fatto masticare amaro (a lui come a tutti; a taluni anche molto di più) e così aveva finito per isolarsi nella sovrastruttura letteraria che gli avevano cacciato in testa da giovane, e che da lì non si era più mossa.. .
Ma ormai si era convinto ˗ la vicenda di Vito e le emozioni esplosive di quella notte glielo avevano, via via, confermato ˗ che qualcosa di positivo sarebbe rimasto, oltre la fine delle prove e della vita stessa. Le anime si sarebbero staccate dai corpi, ma era lo stesso meccanismo dei pensieri dei ragazzi che volano via per essere sostituiti da altri pensieri: come adulti, genitori, vecchi. Rimaneva, comunque, qualcosa che, come un lume, avrebbe illuminato la strada, per buia e impervia che fosse. Sicuramente lo dicono già i preti; ma se quattro gatti scombinati hanno comunque la forza e la speranza per trovarsi una sera che è brutto e andare dietro a qualcosa, forse dietro l’angolo della strada ˗ dove aveva girato la processione e alla fine era arrivato anche lui ˗ c’è già Dio o, almeno, qualcosa per cui vale la pena di vivere e di aver vissuto.
Aveva sempre fantasticato che nella casa bianca, chiusa da sempre, all’angolo con la sede vetero-marxista ci potesse essere, nascosto, un latitante e l’aveva proprio pensato quando aveva visto, sola alla fermata del bus là davanti, una signora araba con un valigione enorme, come quel trolley dove anni prima avevano trovato nascosto, in Spagna, un bambino marocchino …
Ma ora riusciva a pensare e sperare che ciò che, realmente, latitava di più ˗ una democrazia vera e compiuta, per tutte le persone, di ogni età ˗ avrebbe potuto essere meglio protetto e preservato se fosse finalmente uscito da là dentro. Anche nascosto in un bagaglio ingombrante, che si sarebbe fatto uscire e viaggiare con la collaborazione delle donne: come la signora alla fermata, come in una nuova, autentica, Primavera Araba, com’era stato nella Resistenza… E, così, anche qualche magistrato come lui o il signore con l’ombrello ˗ prigioniero del passato e dei fantasmi della gioventù, della libertà e della democrazia ˗ avrebbe potuto uscire allo scoperto, girare per case, chiese e tribunali …
Malavoglia capì, svegliandosi, che qualcuno lo cercava, lo voleva con insistenza, quasi con ardore e calore. Ma non doveva essere né un’anima né, tanto meno, Dio. Afferrò il cellulare del turno. «Buongiorno, dottore! Sono il vicebrigadiere Cangemi » «…Non avendo ricevuto la sua chiamata ieri sera, abbiamo ritenuto opportuno attendere, per non disturbarla, fino al mattino seguente, intendesi le sei odierne. Le riassumo i termini della vicenda …».
Paura del futuro ( cap. Fine corsa, Un anno strano,E. Tomaselli)
Romy a quasi diciassette anni ne ha già passate tante, è sempre in fuga e sempre alla ricerca. Le sembra in fondo di avere sogni semplici, ma tutto sembra allontanarsi e complicarsi sempre più.
Era inutile pensare al futuro. E’ come un mostro marino che finisce sempre per ingoiarti perché tu, una volta che sei in mare, sei in balia sua, non c’è scampo. Lei, nel mare ce l’avevano gettata già da tanto tempo. Finora era riuscita, almeno, a non affogare ma sarebbe stato meglio crepare prima visto che, adesso, arrivava lui e sarebbe finita nel modo peggiore. Fare fuori Francis era una cosa che non c’entrava con il futuro. Era un atto di giustizia da compiere subito, al più presto, almeno avrebbero strappato alla loro vita da schifo qualcosa che essa non avrebbe mai potuto riprendersi. Ne sarebbero rimasti padroni, quali che sarebbero stati il loro destino e il loro tempo.
La speranza, ormai, si era ridotta a quello, si era rimpicciolita a quella macchinetta dove si stava appena in due. Che fregatura. Specie ripensando a quando, ne aveva avuta: l’inizio della storia con Said, la fuga dall’ospedale, quella dopo la rapina in banca, l’evasione dal carcere….Nella giustizia qualcuno buono l’aveva incontrato, soprattutto il vecchio che quasi avevano arrestato con lei. Ma era gente che remava al servizio di una grande nave che tirava dritto sempre, e l’aveva fatta finire in galera. Le ultime volte che aveva sognato qualcosa davvero, come i sogni che fa una bambina, erano state nel buio: vicino al grande fiume, guardando la luna e le stelle, nella tana del brigante e in quell’altra tana che era la chiesina nascosta in mezzo alle case.
Sì, aveva capito anche lei che erano prigionieri di una rete immensa e invisibile. Proprio come i pesci finiti nelle reti a strascico. Pesci che si dibattono, continuano a dibattersi, ma il loro destino è quello, non c’è niente da fare. Così era anche per loro, che pure si erano sbattuti alla morte, avevano combinato casini all’infinito …
Said aveva attraversato migliaia di chilometri, attraversato il mare, e adesso era lì, buttato sull’erba, un corpo che si dibatteva in rantoli di rabbia impotente, ma in fondo ormai rassegnato ad essere preso dal primo che passava e ad essere infilato in una cassa, con tutto ciò per cui si era tanto battuto. Che non erano i soldi e le pistole, ma i suoi sogni e il loro futuro.
Ma proprio perché aveva capito, lei si ribellava con una rabbia che non era mai stata così grande e così cupa.
Ma qualche motivo di speranza, anche al di là dei romanzi, arriva comunque se, come cerco di fare sempre, si esercita la fantasia partendo dalla realtà della vita, individuale e non solo. Una dimensione che fa dire e agire, ad esempio, così…
… Alla mia età non dovrei pensarci troppo, anche perché la vita ti scarica addosso quello che vuole lei. Qualche volta, però, mi viene voglia di sfidarlo, questo futuro, e di andarlo a scoprire nonostante tutto e tutti. Come voler sfidare il mare con una barchetta fregandosene dei venti contrari. Colombo, in fondo, era un testone con tre bagnarole in mezzo a un oceano sconosciuto…
… Qualcosa avrebbe dovuto cambiare se il mondo non voleva continuare a galoppare verso la catastrofe.Così aveva cominciato a scrivere favole …. Le favole sarebbero state il suo testamento e, soprattutto, il suo contributo, ancorché minimo, a un futuro che per essere meno sconsolante del presente richiedeva pulizia, onestà e fantasia …
Con un augurio sentito agli uomini di buona volontà di riuscire a contribuire a costruire pulizia e onestà per quest’anno appena iniziato, anche grazie alla fantasia!
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2021-01-05 18:02:562021-01-06 11:30:12Pensieri e parole, a inizio d’anno
Un anno strano è una storia drammatica, in un contesto di particolare complessità, che ho narrato con stile realistico e animo appassionato, “inseguendo” Romy nelle sue gesta delinquenziali ma anche e soprattutto nel suo conflitto interno fra il modello criminale e i suoi bisogni più profondi, legati alle deprivazioni e alle violenze subite nell’infanzia e nella prima adolescenza. A tutto ciò sono connesse storie di adulti che si sono incrociate scattando attorno a lei come una trappola. Il groviglio verrà sciolto solo quando a scattare saranno, a sostegno dell’agire (spesso fuori dagli schemi) del magistrato Malavoglia, sinergie mosse dall’empatia e dal coraggio di persone, anche diversissime, animate da un comune senso di giustizia. Non a caso ho dedicato il romanzo A tutti coloro che, nei rispettivi ruoli o senza alcun ruolo formale, si spendono perché non ci siano ragazzi “predestinati” al male, cagionato o subito.
Nell’insieme, Un anno strano è un romanzo d’azione e, nel contempo, giocato costantemente sul filo di emozioni anche profonde, con suggestioni e spunti di riflessione, in particolare, sul tema del passato, quasi un personaggio ulteriore della storia. Il passato che per un ragazzo può essere, pur breve, una pesante zavorra; ma che, peraltro, è un immenso fondale dal quale, se esplorato con lo scandaglio della memoria, della critica e dell’autocritica, possono emergere elementi decisivi per la comprensione del presente e la costruzione di un futuro migliore.
So ormai a memoria quanto sopra: la parte essenziale della scheda che metto a disposizione del pubblico in occasione delle presentazioni di Un anno strano. I lettori, almeno quelli (non pochissimi) che mi hanno scritto dopo aver letto il romanzo, hanno mostrato di aver ben compreso, di solito condividendolo, lo spirito che mi ha mosso alla scrittura (anche) di questo libro e, per l’appunto, i contenuti essenziali di esso. Lo stesso si può dire per chi ha finora recensito Un anno strano. Con un’eccezione, che mi crea dispiacere perché la recensione pubblicata sul n.2/2020 di Minorigiustizia (uscito quasi a fine 2020) è stata scritta da una persona che stimo ma che mi sembra aver compiuto, pur nel quadro di un giudizio non privo di valutazioni positive, un errore di prospettiva. Errore che si è tradotto in valutazioni, rispettabilissime, che mi sembrano però poco fondate e tali da dare al lettore della rivista un’impressione sul libro sfalsata rispetto alla realtà. Per questo ho deciso di scriverne qui: non per “drammatizzare” (?), ma perché chi visita il sito possa avere contezza e giudicare autonomamente. Motivo in più per comprare il romanzo, se non già fatto…
Il recensore, che non nomino per evitare personalizzazioni, attribuisce un rilievo centrale nel romanzo («Emerge poi soprattutto…») al «quadro di debolezza del sistema della giustizia minorile e più in generale della rete pubblica a protezione dei minorenni». La solitudine di Malavoglia sarebbe il segno delle difficoltà operative delle pubbliche autorità: infatti «I servizi sociali non si vedono mai. I colleghi magistrati sono scarsamente motivati, poco competenti» e interessati a tutt’altro (viene richiamato il capitolo Copioni). Avrei, peraltro, rappresentato anche «gli anticorpi alla crisi del sistema»; contesto nel quale viene citato Malavoglia, che però, sempre a giudizio del recensore, ci mette sì, come altri, empatia e creatività, ma «talvolta appare eccessivo nella sua creatività».
Al recensore, infine, non è andato giù il racconto “Tiberio” (corpus extraneus), ma questo è un altro discorso, che lascio alla fine.
A questo punto voglio, anzi devo (per rispetto nei confronti del lettore), essere ben chiaro, anche come ex magistrato che ha operato a lungo nel minorile: il focus del romanzo non riguarda affatto “il sistema della giustizia minorile” e “la rete pubblica a protezione dei minorenni”. Ciò, in un’opera con le caratteristiche già richiamate, costituisce solo uno sfondo, connotato dalle denominazioni e localizzazioni di fantasia presenti già in Messa alla prova. Sempre senza assurgere ad alcuna centralità, l’apparato istituzionale (giustizia e carcere minorile; servizi) era più presente in quel primo romanzo, con i suoi aspetti funzionali e di elasticità o disfunzionali e di rigidità; questi ultimi legati, oltre che a progettualità dall’alto e di facciata, soprattutto a talune persone (il presidente Clementini, la giudice Facelli…), a differenza di altre quali la giudice Veneziani, i giudici onorari Martigny e Leotta, l’assistente sociale Barbieri, la psicologa Possenti…
Sembra essere sfuggito a questo recensore di Un anno strano (pur attento, anche a certi particolari) un aspetto di fondo: Romy brucia fino in fondo, sempre più rapidamente e disperatamente, le tappe della sua “diversità” e con ciò riesce purtroppo a rendere inefficace, per lei, l’agire istituzionale ordinario (così come il padre, entrando nella banda di Francis, contesto in cui Romy era cresciuta, aveva reso la figlia “invisibile”). Malavoglia chiede e ottiene misure cautelari, chiede e ottiene la condanna di Romy a tre anni e mezzo di carcere, chiede e ottiene la decadenza del padre della ragazza dalla responsabilità genitoriale… I giudici ci sono, in questi passaggi procedurali, e c’è anche un dialogo di Malavoglia con Ilaria Castagno, titolare della procedura riguardante il padre della minore e considerata dal suo collega una brava giudice. Così come ci sono gli operatori sociali, in occasione di udienze e interrogatori, e c’è anche la già citata psicologa Possenti, che ha con Malavoglia (pp. 106-107) un significativo scambio di battute. Peccato che Romy, fino alla svolta che maturerà nella parte finale del romanzo, rifiuti “agganci”, sostegni e garanzie perché ha in testa ben altro, che la spinge, piuttosto, a cercare talvolta di “trattare” direttamente con il p.m.
Scrivere, poi, che «I colleghi magistrati sono scarsamente motivati, poco competenti, interessati al piano ferie e alla carriera più che a discutere del merito dei casi” travisa, enfatizzandone e generalizzandone la portata, un passo del capitolo Copioni che nel testo del romanzo occupa circa tre pagine (dal fondo di p.24 a quello di p.27) a fronte delle circa 250 di esso.
In tale passo si parla di una riunione d’ufficio che tocca dirigere a Malavoglia, sostituto procuratore anziano, in assenza del procuratore. Le riunioni d’ufficio (tanto più di un ufficio requirente come la procura della Repubblica) di norma non vengono fatte, come intuibile, per discutere del merito di singoli casi bensì di questioni organizzative o interpretative di interesse comune. Su tale sfondo ho descritto alcune dinamiche interpersonali riguardanti Malavoglia e gli altri sostituti e il passo, che ha un tono ironico, è stato scritto soprattutto come momento d’intermezzo e alleggerimento fra i passi precedenti e successivi, segnati da fatti e tensioni ben maggiori. Il lettore ha così la percezione del possibile intersecarsi di “copioni” esistenziali dove si mescolano la routine (anche quella di una riunione d’ufficio, dove si parla anche del piano ferie) e drammi più o meno preventivabili. Il brano, quindi, andava/va letto nella sequenza narrativa e logica su cui è imperniato il capitolo Copioni, ancora nella parte iniziale del romanzo (si tratta del terzo capitolo, su ventiquattro).
Con ciò, spero chiarito che non è stata “la crisi del sistema” ad ispirarmi l’idea e i contenuti di Un anno strano, quanto agli «anticorpi alla crisi del sistema» resta da dire, più semplicemente, che pur in una situazione grave come quella di Romy possono esservi chances di recupero se c’è gente disposta ad andare a fondo, anche nel passato altrui e financo proprio e anche assumendosi dei rischi, e se si creano giuste sinergie, all’interno e all’esterno delle istituzioni. Su questo terreno, peraltro, secondo il recensore c’è, come già accennato, il problema degli eccessi di “creatività” di Malavoglia. Vengono citati quali esempi comportamenti (descritti nei capitoli Ponte rio morto e Domenica d’agosto) che il sottoscritto ritiene, invece, positivi in quanto coerenti con ciò che è alla base del romanzo e ho sintetizzato nella scheda su di esso. Sono, ovviamente, valutazioni opinabili. A me importa chiarire, comunque, che non ho voluto fare alcuna “lezione sugli anticorpi” ma raccontare una storia di fantasia con un succo credibile, perché non galleggiava sulle nuvole ma prendeva le mosse dal magma della realtà, e con suggestioni auspicabilmente utili come stimolo alla riflessione.
Forse il fatto che la recensione fosse destinata alla pubblicazione sulla rivista promossa, in collaborazione con l’editore FrancoAngeli, dall’Associazione italiana dei magistrati minorili e per la famiglia ha fatto sì che la visuale del recensore privilegiasse in qualche modo le questioni legate agli apparati istituzionali, senza considerare adeguatamente che la sostanza del romanzo verte su altro (ad esempio anche sul rapporto fra Romy e il padre, figura presente fin dal primo capitolo e il cui rilievo avrebbe forse meritato qualche cenno più approfondito).
Per chiudere su questo argomento: nella presentazione on line del 14 dicembre 2020 mi è venuto spontaneo, soprattutto come lettore e comunque non per insensati confronti “autoriali” con Gianrico Carofiglio, segnalare che in diversi dei suoi romanzi vi sono ambientazioni e vicende giudiziarie spesso tutt’altro che lusinghiere per il “sistema”. Senza che alcuno metta in dubbio, mi sembra, che in tali romanzi ciò che conta davvero, tanto per l’autore quanto per i suoi lettori, non sia l’approfondimento dell’analisi critica di esso; che funge, piuttosto, da sfondo e occasione di vicende umane complesse, spesso drammatiche, dove la concatenazione dei fatti, la psicologia delle persone, l’incidenza (non di rado) del caso, ecc… assumono un rilievo narrativamente ben maggiore. Come logico, trattandosi della storia su cui s’impernia un romanzo.
Avviandomi alla conclusione: come già accennato, il racconto intitolato Tiberio è stato ritenuto dal recensore un corpus extraneus. Nulla da eccepire, ovviamente, alla libera valutazione altrui, se non fosse che questa mi appare ancora frutto d’incomprensione (di ciò che, per vero, mi sembra essere stato, invece, ben inteso da chi altri ha letto il romanzo, l’ha valutato ˗ anche premiandone l’autore in un concorso letterario nazionale intitolato a Vittorio Alfieri ˗ e l’ha recensito). Lo dico anche in base a un indizio “testuale”: le parole con cui si chiude la recensione. Secondo chi l’ha scritta, io sarei stato consapevole di quella estraneità e, giocando d’anticipo rispetto alla critica, avrei, subito dopo la conclusione del racconto, messo a bella posta una certa domanda in bocca ad Elettra, la compagna del magistrato. Giusto per provocare la risposta di Malavoglia-Tomaselli (testuale), che avrebbe così ˗ a questo punto lo dico effettivamente con parole mie ˗ cercato di salvare capra e cavoli.
Cerco di non farla troppo lunga (andate direttamente alle fonti comprando il libro…), ma devo pur essere chiaro con chi leggesse queste note. Malavoglia, durante un viaggio in treno con la sua compagna, ha riletto un suo racconto giovanile. Elettra ha più motivi, del tutto naturali, per incuriosirsi. Malavoglia (che non è Ennio Tomaselli) dà una risposta articolata e c’è un sia pur breve dialogo (il passo occupa un po’ più di mezza pagina –v. pp. 84-85).
Ho sicuramente voluto incuriosire il lettore, ma non si trattava di un giochetto letterario più o meno astuto, di una sorta di piccolo “effetto speciale”, bensì di un momento di quell’attraversamento del passato che è uno dei fili conduttori del romanzo (bello o brutto che sia). Passato, memoria e testimonianza sono termini collegati, tutti rilevanti, e in tale contesto quel presunto “corpo estraneo” aveva e ha una sua funzione. Mi spiace che ciò non sia stato compreso, in particolare da una persona che conosco e stimo, mentre è stato ben inteso anche da persone meno titolate. Il fatto è che non è per nulla facile fare una buona recensione di un romanzo. Mi ci sono cimentato anch’io, qualche volta. Occorrono soprattutto comprensione approfondita del testo, corretta metodologia di lavoro e prudenza di giudizio. E non è detto che bastino.
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2020-12-17 16:10:402020-12-17 16:10:40A proposito di una recensione
Sospeso. Forse è la parola più adatta per indicare lo stato delle cose prevalente in questo periodo. Sospesi gli appuntamenti, sospesi incontri e manifestazioni, sospesi programmi individuali e collettivi.
Siamo tutti costantemente in attesa di un evento che sblocchi, che dia una direzione chiara e possibilmente nuova. Ma quale evento e verso dove? Verso là dove eravamo prima che un invisibile virus segnasse un muro divisorio, invisibile anch’esso ma invalicabile, tra il prima e il dopo? Non sappiamo rispondere, anche se, forse, un approdo già conosciuto ci tranquillizzerebbe.
Il lavoro è spesso svolto a casa, i negozi consegnano a domicilio, a casa i ragazzi aprono stancamente i loro devices, fino a ieri tanto amati, per fare scuola o, meglio, subirla …
Si muovono critiche alla didattica a distanza, soluzione emergenziale e non gradita perché i più scoprono, sembra solo oggi, che a scuola “in presenza” ci andavano volentieri e dichiarano apertamente, forse per la prima volta, che ci si sta volentieri, soprattutto perché si hanno relazioni. Con i compagni, con gli amori appena sbocciati, perfino con gli insegnanti.
Tutt’altro che sospese invece le lamentele: le attività commerciali e imprenditoriali in grave perdita, il settore turistico alberghiero e quello della ristorazione in caduta verticale di profitti. Non sanno quale domani immaginare, quale prospettiva e in quali tempi, non sanno cioè nemmeno che cosa attendere. Purtroppo non si sentono lamentele altrettanto vivaci da parte del pubblico delle biblioteche, praticamente inagibili da moltissimi mesi e flebili voci si levano anche per i musei inesorabilmente chiusi; rammarico per i cinema e i teatri, ma soprattutto e giustamente da parte dei lavoratori che si trovano ulteriormente precarizzati in una situazione già difficile.
I dialoghi, le discussioni e le spiegazioni affidate al web sembrano fotografare la realtà in una sorta di screenshot del mondo e dei suoi problemi.
Anche di libri si parla: come sempre sulla carta stampata dei giornali, ma soprattutto on line, con seminari e dibattiti. Servirà a far leggere di più? Il libro e le sue parole continuano a veicolare i pensieri, i dubbi, i sogni? Purtroppo pare che, nonostante le chiusure in casa più o meno rigorose, in questi mesi si siano acquistati meno libri. Ciò non vuol dire che si sia letto di meno, magari è stato scoperto o riscoperto qualche libro già sugli scaffali o ci si è affidati maggiormente ai formati elettronici. In effetti le parole possono risuonare anche grazie agli algoritmi …
Già iniziano a fiorire esperienze letterarie su questi tempi e su questi giorni, ma le classifiche di vendita sembrano però privilegiare narrazioni senza tempo, scenari del passato, realtà distopiche (se ancora tali…) apparentemente poco accattivanti.
Oggi, poi, meno che mai si sa se la letteratura debba ancora rispondere al famoso dettato di Sartre secondo il quale “parlare è agire sulla realtà e io devo parlare soltanto pensando di cambiare”. E dire che cose da cambiare, anche attraverso la parola, in effetti ce ne sarebbero parecchie, proprio in una realtà che viene vissuta e narrata in termini fortemente polarizzati. Come rispetto al virus, o si è positivi o si è negativi, o si è catastrofisti o negazionisti, o complottisti o sudditi ignavi, o no vax o propugnatori di qualsivoglia vaccino per chiunque. I dibattiti moltiplicati all’infinito non fanno che ribadire questa dinamica, schierando esperti su posizioni opposte e contrapponendoli perché anche il pubblico possa prendere posizione. C’è chi afferma e chi nega, chi distingue e analizza, chi invece semplifica fino alla superficialità, voluta o no, della comunicazione. La scienza, oggi, è ben lungi dall’essere considerata dal grande pubblico oggettiva e soprattutto neutrale. E se porre dubbi è il fondamento principale non solo del metodo scientifico ma anche dell’argomentazione filosofica, non sono veri dubbi quelli che vengono avanzati, ma prese di posizione ciascuna con i propri guru e i propri fan.
Ovviamente, come ci raccontano tutte le opere letterarie legate, nei secoli, alle epidemie, queste contrapposizioni ci sono sempre state in occasioni simili, frutto anche di massicci meccanismi difensivi e di carenze culturali spesso sottovalutate. La grande consolazione del Bene e del Male che si fronteggiano a duello.
Anch’io, ovviamente, sono immerso in questa atmosfera. Ma penso spesso anche ai personaggi dei miei libri o dei miei racconti (sì, in quest’anno strano ho iniziato a cimentarmi anche nel racconto breve). Anche loro sono “sospesi” in questo periodo in cui non si possono fare presentazioni, ma cercherò di dare loro anche una voce digitale. Li farò parlare affidando al web, attraverso di me, la loro voce e il loro messaggio.
Una cosa certa, che emerge chiaramente, è che nel mio mondo narrativo, pur piccolo, non c’è una partita di boxe tra Bene e Male. O meglio: forse la partita c’è, ma è di squadra e i giocatori non giocano sempre nella stessa parte del campo, i loro cambi di posizione a volte sono impercettibili, ma ci sono. Insomma, come ho scritto nella dedica di Un anno strano, non penso che si debba soggiacere alla logica dei due poli, positivo e negativo, dei “predestinati al male cagionato o subito”; e ciò tanto che la predisposizione sia genetica (?), per carattere, per immutabilità del gioco di ruolo. Quest’ultimo, del resto, è scelto spesso da altri per noi e quando, poi, si parla di ragazzi i giochi sono tutt’altro che fatti. Pur se va detto che la logica oggi prevalente non è certo questa.
Da studenti ci facevano analizzare fino allo sfinimento il verso dantesco “liberi soggiacete al volere dei cieli”. Anche il padre Dante (è il suo anno, no?) sottolineava la libertà, innanzi tutto. Libertà di credere nel cambiamento possibile e nella non ineluttabilità del negativo; cioè, in sostanza, nel libero arbitrio che consentiva a lui, per esempio, di fare con la sua opera “come il vento che le più alte cime percuote”.
Certo, innanzi tutto bisognerebbe, in ogni ambito della propria vita, sentirsi pienamente liberi. Cosa ardua nei nostri giorni sospesi, in cui secondo alcuni anche le libertà sono state sospese. Le abitudini certamente, ma non confondiamo e sovrapponiamo le disposizioni per evitare gli assembramenti, nella vita sociale e familiare, con la perdita di libertà. Vorrebbe dire che finora abbiamo percepito una dimensione di libertà ben limitata, legata al fare e al non fare. A un polo positivo e a un polo negativo. Ma, come dicevano i filosofi, prima di tutto libertà è essere, non fare.
Per fortuna, liberamente, siamo ancora capaci di creare, esprimerci, criticare, sognare. E non sarà un polo negativo o positivo a dare dei limiti alla nostra possibilità di cambiare.
https://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpg00enniohttps://enniotomaselli.it/wp-content/uploads/2018/06/logo.jpgennio2020-11-29 15:44:132020-11-29 15:44:13Tra polo positivo e polo negativo